Due occhi contro uno – S. Antonelli, L. Naponiello, G. Tinelli, I. Trani

DUE OCCHI CONTRO UNO

Antonelli S.

Naponiello L.

Tinelli G.

Trani I.

Trascrizione dal diario di campo tenuto del serg. Tinelli Renzo nel settembre 1943

[…]

6 settembre 1943 Cattaro – Gov.to della Dalmazia

Dopo le difficoltà del mese scorso, ad oggi il rancio viene servito caldo da due settimane. Intorno al porto i colli vengono ancora coltivati ad uva, a frutta e i castagneti ben tenuti, le bestie pascolate nei terreni abbandonati hanno foraggio a sufficienza e questo permette a noi e alla popolazione di tenerci in salute. Ieri, oltre alla minestra, le solerti orsoline della chiesa di San Trifone hanno macellato un capretto. In cambio, ho promesso alla priora, di comune accordo con il serg. Hausser, di rimettere in sesto il tetto del convento prima dell’inverno, che nella valle riferiscono essere particolarmente rigido e piovoso. Nonostante la propaganda comunista e le ispezioni approntate negli ultimi tre giorni, la gente del luogo è gentile, timorosa. Ma molte sono le donne sole rimaste a badare alle case e ai campi, e questo attira alcuni dei soldati, con tutti i problemi che comporta per l’igiene e i rapporti con i locali. Giusto ieri il sold. sempl. Loddu, che da prima dell’estate intrattiene una relazione adulterina con una donna di Cucaglievina, tale Jelena coniugata Molnar, nonostante io, in quanto superiore, glielo abbia sconsigliato vivamente, durante il permesso ha approfittato per pernottare fuori dal paese piuttosto che nel nostro alloggio, adducendo come scusa la pericolosità di muoversi da solo per mulattiere. Nonostante la nostra efficace incursione del 4 settembre lungo il lato settentrionale delle Bocche, continuano infatti ad aggirarsi per i colli alcune bande di comunisti, la cui nuova missione, per ora, è di rubare galline. Gli ho però fatto notare che anche rimanendo in casa della donna ha rischiato di essere catturato, dal momento che non abbiamo prove della fedeltà di nessuno e di nessuno dobbiamo fidarci. Sono stato costretto a impedirgli la libera uscita e assegnarlo ai turni di guardia notturni. Per il resto, la compagnia è di umore allegro e attende con ansia nuove direttive dal comando centrale.

8 settembre 1943 Cattaro – Gov.to della Dalmazia

Non si combatte più, l’Italia si è arresa, si ritorna a casa. Queste sono le parole che risuonano tra di noi e aspettiamo con fiducia e attenzione nuove direttive, ma dopo trasmissione dell’armistizio del Nostro gen. Badoglio, ancora nulla – provato anche di risintonizzarsi sull’EIAR, con il comando del gen. Giglioli a Spalato, ma niente. Attendiamo.

9 settembre 1943 Cattaro – Gov.to della Dalmazia

In questi momenti che dovrebbero rinforzare la fede per la nostra Nazione, la confusione sul da farsi è forte e c’è sempre chi, debole di spirito, si mostra per il disfattista e profittatore che è sempre stato. Nemmeno fosse stato sciolto l’Esercito! La sera dell’8 si è festeggiato nella piazza di fronte a San Trifone, abbiamo acceso un bel fuoco e brindato con qualche bottiglia di sclivovi offertaci per poche lire dalle orsoline. Approfittando della notte, da vigliacchi un gruppo di noi ha deciso di disertare, probabilmente capitanati da Loddu. Questi comprendono i sold. sempl. Mantoni, Ricciardi e Scarabelli, oltre al serg. Satta e a Migliorini, il cambusiere arrivato solo ieri dal comando di Spalato. Il sottoscritto e i sold. sempl. Micheli, Moro e Fanoli abbiamo deciso di rimanere a presidiare il paese. Nessuno è del luogo, nessuno vuole rimanere ancora qui, a tutti manca casa, moglie e, chi l’ha, prole, ma lasciare Cattaro per una meta non definita sarebbe una scelta da corte marziale. La guerra qui sembra essere riesplosa, e già si parla di alcune truppe alleate croate intraviste sulla strada che porta a Perzagno. I disertori hanno trafugato armi, munizioni e una parte di viveri da campo, oltre alla strumentazione radio. Il serg. Hausser e le sue truppe dovrebbero tornare ad ore. Chiederemo a loro la possibilità di utilizzare la loro radio, in modo da poter inviare a Zara un messaggio che raccolga informazioni e denunci l’accaduto al comando centrale. Attendiamo.

12 settembre 1943 Duga Resa – Stato Indipendente di Croazia

Siamo passati per Duga Resa. A questo punto il diario di campo serve a raccontare solo le mie vicende personali. Questo compito mi era stato affidato dal serg. Satta dopo aver letto alcune lettere che avevo scritto a Daria. Lei ha il dono della sintesi! mi aveva detto. I ragazzi scherzavano tra loro guardando le foto delle proprie fidanzate. Anche io ho una tua foto, Daria. Tra un mese sono tre anni che siamo sposati. Vorrei scriverti ma non so se ne avrò la possibilità: sono giorni concitati.

daria

All’arrivo di Hausser le truppe tedesche ci hanno trattato con riguardo, nonostante abbiano deciso di sequestrarci le armi. Sono riuscito a ottenere solo che la mia Enfield modificata, cimelio inglese della campagna d’Africa, senza munizioni, sia trattenuta dal serg. fino a quando vorrà consegnarci a chi di dovuto, sperando che comprenda qualche parola di italiano. Le comunicazioni tra me e il serg. tedesco sono state sempre ostacolate dalla differenza di lingua, ma questa volta è sembrato che lo sforzo di comprensione sia stato solo mio. Dopo averci caricato su una motoretta coperta, siamo stati in viaggio per giorni, fermandoci solo per la notte in villaggi per lo più abbandonati. Il secondo giorno abbiamo cominciato a vedere corpi lungo la strada. Molti avevano la divisa del Regio Esercito, probabilmente qualche disertore o qualche boia arruolatosi tra i partigiani. Non si spiegherebbe altrimenti il perché noi, pure in ambascia e disarmati, siamo ancora vivi, e ci dirigiamo verso il confine italiano. Forse mi sbaglio, ma credo di aver visto la chioma nera e lucida di quel giuda di Loddu tra l’erba.

16 settembre 1943 – campo di concentramento della risiera di S. Sabba, stalag 339

Sono due giorni che sono arrivato al campo, e comincio a perdere forze. Moro, Fanoli e Micheli sono stati messi in un altro caseggiato. A me è stato permesso di tenere solo una scatoletta di carne che avevo in tasca e il diario. Il cibo è scadente, e i tedeschi ci trattano appena meglio dei civili. Pochi hanno voglia di parlare, e le notizie che ci arrivano sono confuse. Molti invece sono i convogli che si sono fermati tra ieri e oggi, giusto il tempo di passarsi le consegne, qualche iaol e poi ripartiti, senza far scendere nessuno, tanto che da fuori i vagoni potevano apparire vuoti.

Mia adoratissima Daria,

è da tempo che non ti scrivo qualche riga per dirti come

sto, come mi manchi, ma la guerra saprai ha preso una piega

17 o 18 settembre 1943

Due giorni di viaggio senza interruzione, in un carro bestiame. Siamo partiti all’alba, ho cercato di dormire per non sentire fame e ho dormito tanto che non so più se è ancora il 17, noi stiamo abbastanza larghi da fare i turni a chi deve stare in piedi ma dai vagoni vicini, quando ci fermiamo e c’è silenzio, sentiamo lamentarsi e chiedere acqua. Più avanziamo e più fa freddo. Prima di salire sul vagone è passato in ispezione l’SS che comanda il campo, tale Globocnik. Dicono sia stato incaricato da Himmler in persona. Sembrava molto soddisfatto, scherzava con i suoi ufficiali. Aveva nella fondina la mia Enfield. L’ho riconosciuta dal calcio bianco.

Mia adorata Daria,

quando ti conobbi i tuoi occhi mi fecero sentire piccolo piccolo, e capii subito che saresti stata mia moglie. Ricordo ancora come fosse ieri quando scendevi con i tuoi da Vaprio per fare il banchetto al mercato. Era strano che un ragazzo stesse tutto quel tempo a guardare filati, gomitoli e lana da cardare senza comprare mai niente, ma non riuscivo a staccarmi da te. Ogni giorno penso a te e a quanto mi manchi, a quanto la guerra sia stata crudele a portarmi via, lontano da casa nostra. Che strazio non poterti dire se e quando tornerò. Non so nemmeno se riuscirai mai a leggere queste poche righe che ti scrivo, ma mi aiutano a sentirti più vicina. La speranza di avere tue notizie e un giorno di rivederti è l’unico pensiero che ancora mi fa sopportare tutto questo.

Per sempre tuo,

Renzo

Trezzo sull’Adda, 1965

Delle festività natalizie non era rimasto altro che il piccolo presepe allestito sopra la televisione. Dentro la grotta, l’asinello, il bue e il bambinello la fissavano mentre lei fissava loro e imbambolata pensava alla felicità che il Santo Natale portava alle famiglie, ma non alla sua. Ogni anno era la solita recita, ma non quella che Rina, Celestino e Sauro, i suoi tre figli, propinavano puntuali alla mezzanotte del 24 dicembre. Lanciò un ultimo sguardo al bambinello e uno a suo marito Renzo, che grugnì e si girò dall’altra parte. Aveva addosso ancora i calzini e i vestiti del lavoro, e come al solito aveva sparso farina per tutta la stanza. Prima di uscire si chinò per baciarlo. L’occhio di vetro, immerso in una soluzione salina, la fissava dal comò. Nonostante il freddo, anche quella mattina Daria si sentì sollevata di allontanarsi da casa.

Erano passati vent’anni da quando Renzo fu rimpatriato. Tornò a Trezzo il 10 giugno del 1945, in una giornata estremamente calda. Le venne incontro con un sorriso, ma lei pensò solo che quello non era suo marito: il suo volto era sfigurato e portava una benda sull’occhio destro. Non fu affatto facile, soprattutto i primi tempi. Faceva del suo meglio per nascondere a Renzo la repulsione per quelle ferite. Sapeva di amarlo sopra ogni cosa e più di se stessa ma diavolo, cosa c’era allora che non andava in lei? Il matrimonio non è forse amare incondizionatamente? Più Renzo si convinceva della sua inadeguatezza nei confronti della moglie, e più Daria faceva i salti mortali per lui. Si amavano, a loro modo, e misero al mondo tre figli: Rina, Celestino e Sauro, che diedero loro una gioia immensa, ma non cambiarono un bel niente. Col tempo, crescendo, cominciarono a fare domande sull’aspetto del padre, ma Renzo era un muro e loro non insistevano. Era un delicato equilibrio che gestivano con la routine: i ragazzi andavano a scuola, Daria aveva il suo lavoro da infermiera e da tre anni avevano aperto un forno dove Renzo spariva ogni notte. Quel forno gli piaceva, e gli piaceva soprattutto che la sua vita ora fosse solida.

Era il 27 gennaio del 1965, aveva smesso di nevicare e Daria stava tornando a casa dopo un turno massacrante. Era mezzogiorno e doveva preparare il pranzo, sfregò le scarpe sul tappetino ed aprì la porta.

«Come cazzo ti è venuto in mente? Perché non riuscite a ficcarvi in quel dannato cervello che dovete stare alla larga dalle mie robe?»

«Papà mi dispiace, io…»

«Stai zitto Celestino! Ti ho forse detto che puoi parlare?»

Renzo era in cucina, e urlando a squarciagola contro Celestino brandiva il suo diario di guerra. Il figlio lo aveva trovato frugando per casa.

«Cristo!» sbottò Renzo.

Daria provò a dire qualcosa ma appena aprì bocca Renzo le tirò uno schiaffo, rimase qualche attimo in silenzio, poi prese le chiavi della 500 e si catapultò verso la porta. Subito dopo Rina e Sauro rientrarono da scuola e trovarono la mamma chinata su Celestino, che cercava di consolarlo. Daria pensò che avrebbe fatto meglio a mandare anche lui a scuola quel giorno, nonostante l’influenza. Si alzò, si mise a posto i capelli e con finto tono tranquillo disse ai figli di mettersi sul divano mentre preparava da mangiare. Andando in cucina si accorse che Renzo aveva lasciato il diario sul pavimento, lo raccolse e lo infilò nel cassetto delle posate. Quando cominciò a sfogliarlo si sorprese a commuoversi: sapeva quello che aveva passato, ma leggere quelle pagine le faceva uno strano effetto, come se stesse conoscendo solo ora suo marito. Capì quanto fosse stato ligio al dovere e come i giorni che seguirono l’armistizio furono duri per lui, perché dovette prendere una decisione che in quel momento gli sembrò obbligata: scelse di restare. Di arrendersi con onore. Sapeva quello che era giusto fare. E poi quelli erano i tedeschi. Erano gli alleati e lo avrebbero trattato come si conveniva. Lesse di un treno e infine la lettera. Voltò pagina: bianco. Non c’era scritto altro.

«Daria!» si sentì urlare dall’ingresso. Trasalì e nascose subito il diario. Gli trotterellò incontro felice che fosse tornato a casa e con ancora in mente le parole del marito, ma Renzo le lanciò uno sguardo che le gelò il sangue.

«Guarda qua» le disse rosso in faccia. In mano teneva una busta. Veniva dalla Germania. Daria la prese con delicatezza e la aprì:

23. Gennaio 1965

Egregio Signor Tinelli!

Allegati Le inviamo 2 certificati dai quali risulta che Lei nel 1944 subì un infortunio sul lavoro nell’allora Fabbrica di Soda Stassfurt, Goldschmidt A. G. . La fotocopia del certificato oculistico dell’Accademia di Medicina di Magdeburgo conferma il suo ricovero nella loro Clinica Oculistica, e l’attestato del Signor Friedrich Kessler, collaboratore nel nostro stabilimento, Le certifica altresì che Lei nel 1944 subì tale grave infortunio sul lavoro. Il sig. Friedrich Kessler Le prestò allora il primo soccorso.

Noi speriamo, con le documentazioni trasmesse, di darLe una possibilità per farsi assegnare una pensione e Le porgiamo i nostri migliori auguri.

VES VEREINIGTE SODAWERKE

KARL MARX

BERBURG-STASSFURT

(Wagner)

Direttore stabilimento

Daria lesse la lettera ad alta voce e guardò il marito. Quasi se n’era dimenticata: avevano preso contatto con il patronato tedesco quasi un anno prima. All’inizio il marito era stato riluttante, ma Daria e l’avvocato l’avevano convinto, confidando di risolvere la questione in breve tempo e avevano ugualmente inoltrato richiesta per la pensione.

Renzo aveva la testa bassa e non parlava. «Dammi qua» sbottò alla fine strappandole la lettera dalle mani. Girò il foglio e lesse la dichiarazione di Friedrich Kessler.

VES VEREINIGTE SODAWERKE “KARL MARX”

BERNBURG–STASSFURT

(VES Fabbriche riunite di Soda “Karl Marx”)

Bernburg–Stassfurt

18 dicembre 1964

DICHIARAZIONE

Io sottoscritto Friederich Kessler, in qualità di collaboratore responsabile reparto stoccaggio della VES “Karl Marx”, nato a Amersdorf (Sassonia-Anhalt) il 26/05/1907, di fronte all’ufficiale giudiziario incaricato, compagno Hans Winter, e al delegato della Comunità professionale dell’industria chimica, compagno Christa Enzensberger, dichiaro quanto segue:

1. di aver ricoperto il ruolo di supervisore dei lavoratori stranieri addetti al controllo delle celle al catodo di mercurio per la produzione di soda caustica presso la allora Fabbrica di Soda Stassfurt Goldschmidt A.G.;

2. di essere stato presente, in tale veste, all’incidente accaduto a Renzo Tinelli il 27/09/1944, il quale perdendo l’equilibrio durante il controllo giornaliero degli anodi al mercurio cadeva conseguentemente nella cella di stoccaggio contenente una soluzione al 37% di sodio;

3. di essere stato avvertito dell’accaduto dalle grida del Tinelli, il quale era riuscito a uscire con le proprie forze dalla cella giusto prima di perdere i sensi, ed essendo il sottoscritto l’unico in quel momento ad indossare le protezioni adatte a maneggiare il materiale caustico, di averlo portato di corsa nell’infermeria del reparto, applicandogli le prime medicazioni e chiamando i soccorsi, sopraggiunti di lì a poco.

4. di non essere in grado di riferire con esattezza il giorno della registrazione di Renzo Tinelli in quanto lavoratore straniero presso la Fabbrica di Soda Stassfurt Goldschmidt A.G., essendo andati distrutti tutti i documenti capaci di fornire tali informazioni, ma di testimoniare l’identità del Tinelli, rivelatagli dal medesimo al sottoscritto nell’attesa dei soccorsi.

Riletto e sottoscritto.

VES VEREINIGTE SODAWERKE KARL MARX

(Friedrich Kessler)

BERBURG-STASSFURT

(Hans Winter)

(Christa Enzensberger)

«Stronzate! Ecco cosa sono! Un enorme cumulo di stronzate, Daria! Con questa roba mi ci pulisco il culo finché non c’è scritta la cosa più importante che guarda caso, quel tedesco bastardo s’è dimenticata: è stata tutta colpa sua! Ecco cosa doveva scrivere: “è tutta colpa mia, perché sono un lurido bastardo di un tedesco!”»

«Papà… »

«Tranquilli ragazzi non è niente» disse Daria. «Andate in camera.»

«No. Venite qui. Non preoccupatevi. Avete sempre voluto sapere tutto su vostro padre, non è vero? Adesso non vi fa più paura quest’occhio, vero?» disse rivolgendosi ai figli picchiettandosi l’occhio. Poi si sedette.

«Il giorno dell’armistizio ero di stanza alle Bocche di Cattaro, in Jugoslavia. Quando poi fui catturato dai tedeschi, dopo qualche giorno alla Risiera di san Sabba mi spedirono al nord. Quella mattina ci ammassarono sul treno e nessuno di noi aveva idea di quale fosse la destinazione. Dopo giorni ci scaricarono davanti ad un’enorme cancellata. Eravamo a Stassfurt, in quella che oggi è Germania dell’Est. Con me c’erano altri italiani catturati dopo l’armistizio. La Sodawerke produceva soda caustica. Passai un anno in quella dannata fabbrica e fra gli altri, conobbi un tedesco: Friedrich Kessler. Anche lui era ai lavori forzati, ma in quanto oppositore politico: era socialista, lui! Da subito montò un odio reciproco e crebbe ancora di più la mia rabbia contro i tedeschi. Ogni giorno che passava non facevo che pentirmi di essermi consegnato a loro. Kessler! Quel bastardo era supervisore dei lavoratori stranieri, così un giorno, quando mi beccò a rubare del pane dalla giacca di un mio compagno mi spedì immediatamente alle tinozze. Quello era il lavoro più duro e pericoloso di tutta la fabbrica. Lì dentro l’aria era irrespirabile e le nostre protezioni ridicole. Il 27 settembre del 1944, mentre controllavo la temperatura di una vasca, persi l’equilibrio e ci finii dentro. Per fortuna la soluzione era al 37%, altrimenti non sarei qui a raccontarlo. La pelle era corrosa su gran parte del corpo e del volto e per l’occhio non c’era niente da fare. Me lo asportarono all’ospedale di Magdeburgo il 20 ottobre e otto mesi dopo mi rimpatriarono. È vero, fu Kessler a prestarmi soccorso per primo, ma tutto questo non sarebbe mai accaduto se quell’infame non mi avesse spedito alle tinozze! Solo per un tozzo di pane poi!»

«Renzo, io… non mi avevi mai parlato di questo Kessler…»

Ma Renzo non la ascoltava. Girava intorno al tavolo della cucina e ripeteva: «…stronzo io che mi consegnai a loro!»

«Mi dispiace caro… mi dispiace ma con questi documenti che la fabbrica ci ha inviato adesso possiamo ottenere la pensione, non credi? Possiamo finalmente sperare di ottenere ciò che ci spetta.»

«Allora pensaci te. Io non ce la faccio! Kessler è un bastardo. E non mi importa di chi o cosa lo abbia portato a fare questa dichiarazione in mio favore. Era e rimane un bastardo. Io ho il forno. Ho la mia vita. Voglio fare il pane. Tu hai il tuo stipendio e dannazione, Daria! Non voglio più sentir parlare di quel lurido tedesco. Pensaci te.»

Daria tentò di ribattere ma poi si girò, stanca, e con un piccolo sorriso di soddisfazione disse solo: «andiamo ragazzi.»

Trezzo sull’Adda, 1974

«Reenzo, Reeeeenzo!!!»

Dalla cucina sentiva lo scalpicciare rimbombante di sua moglie che saliva rapidamente le scale. Prese tra dito e dito la lente sinistra dei suoi occhiali a montatura grossa (“fanali”, ironizzava sua figlia) e si alzò sbuffando da tavola. Pulì le mani contro lo strofinaccio bisunto appeso al grembiule ed aprì la porta.

«Daria, cosa c’è da urlare?!» rimise gli occhiali.

Lei spuntò dalla tromba delle scale, ansimante per la breve corsa, agitando il suo corpo che andava appesantendosi con gli anni. Ancora una bella donna, nonostante i cinquanta suonati già da un pezzo.

«È arrivata la risposta, là, come si chiama?, la roba del tribunale che chiedevamo da un po’!»

«Cos’è ch’è arrivato? Ho mica capito!»

«Dai, Renzo, insomma il coso in cui dicono se ci avrai la pension… La sentenza! Ecco, la sentenza del tribunale europeo che avevamo chiesto la pensione ai tedeschi! Eccola qua» si sfilò di tasca una busta gialla ancora chiusa.

«Vediamo». Renzo la aprì e cominciò a scorrerla rapidamente, avvicinandosi alla luce sopra il tavolo e sfilandosi gli occhiali con lo stesso procedimento di poco prima (e così l’unica lente che serviva a qualcosa risultava del tutto opacizzata dal grasso di indice e polpastrello, e l’occhiale finiva promiscuamente tra le stoviglie da lavare, in pratica ogni giorno).

«Mah… bisogna che si consulta l’avvocato, perché qua non ci capisco…» arrivò all’ultima pagina, difficilmente fraintendibile, e lesse: «pertanto la richiesta di indennizzo per infortunio sul lavoro inoltrata dal signor Renzo Tinelli non può essere ritenuta accettabile, visti i codici… ah qui suona male direi… sacramento di Dio! Daria, chiama l’avvocato.»

L’avv. Salvi scosse la testa e ripiegò la lettera, allungandola ai coniugi. Loro non si mossero e lo guardarono fisso, con l’aria di chi si sente preso in giro.

«Non posso dirvi altro che ciò che avete letto anche voi nella lettera: la pensione dai tedeschi non arriva perché non siete residenti in Germania.»

«Ma come – sbottò Daria sporgendosi minacciosamente sulla scrivania, verso l’avvocato– i tedeschi adesso fanno i danni agli altri e poi, comesidice, risarciscono solo i loro?! Ma lui per chi ha lavorato eh, se non per i tedeschi? E chi me l’ha rimesso alla porta di casa con un occhio in meno, eh? Chi?!»

«Dai Daria, siediti che tanto l’avvocato mica c’entra niente…» tentò di calmarla suo marito.

«C’entra niente un tubo, lui e gli uomini che le leggi le fanno che c’intortano ci rincoglioniscono con la legge bis del comma del cristo in cruss… ma io mi sono stufata ora!»

«Signora Tinelli, non c’è nulla di complesso, si tratta semplicemente di una legge del millenov…»

«Ecco, vedi! Vedi! Frega niente a me delle leggi, frega che c’è mio marito qui tutto bruciato e con un occhio in meno. Mi voeri i danée, minga i leggi

«Daria, per piacere calmati. Se c’è scritto così cosa ci può fare l’avvocato?»

Sua moglie lo guardò con uno sguardo illivorito. Da giorni gli raccomandava che se fosse arrivato un rifiuto lui avrebbe dovuto sostenerla, perdio, «l’occhio è il tuo!, non fare finta di niente!». Si girò e uscì dallo studio, lasciando i due uomini ad allargare le braccia.

Il risultato fu tre giorni di silenzio assoluto e broncio reciproco, a segnalare il profondo disaccordo di atteggiamenti: lui sfinito e rassegnato; lei che avrebbe proseguito fino all’ultimo respiro per farsi dare un po’ di soldi da chi aveva sfregiato il suo uomo.

Renzo ricominciò a parlare con Daria, che protrasse il silenzio per altri tre giorni; quando doveva dirgli qualcosa lo faceva con lo sguardo cupo e i gesti sordi di un’anima irrequieta. Le sembrava assurdo, e anche un po’ vigliacco, che suo marito si rassegnasse così a non ottenere nulla da quella fabbrica alla quale aveva sacrificato un occhio e i tre quarti della pelle.

Trezzo sull’Adda, 1976

Renzo era partito per la guerra da Milano. Lì era anche andato ad arruolarsi: visita medica, giovane uomo in salute, idoneo. Fuori da quella caserma, qualche giorno prima di partire, lui e qualche commilitone appena conosciuto avevano scattato quella fotografia. Chissà quanti di loro erano tornati. Chissà che vita facevano oggi.

tinelli

La fotografia era tra le mani di Daria. Ne aveva altre davanti a sé, sparpagliate sul tavolo del salotto, insieme con altre carte. La sua mente era altrove, al pensiero di Renzo, suo marito, che in questo momento dormiva.

Ripose la fotografia fra le altre carte. Perché ripercorrere queste memorie? Dalla Corte Europea avevano detto di no, non c’era niente da fare. Eppure. No, non c’era possibilità né speranza di ottenere la pensione insistendo con altre pratiche, altra burocrazia. Aveva forse dato una mano nella ricostruzione post-bellica? Era forse residente in Germania? No. E allora non avrebbe ottenuto niente.

Daria si muoveva, su e giù per il salotto di casa, con l’illusione di svolgere qualche faccenda necessaria. Una macchia di muffa sul muro che avrebbe dovuto pulire. Uno strato sottile di polvere sui mobili che avrebbe dovuto rimuovere.

Non se n’era più parlato. Da quando era arrivata la lettera della Corte Europea che diceva che Renzo non aveva diritto ad alcuna pensione, perché non residente in Germania, l’argomento non era più stato sollevato. Kaputt.

Il gorgogliare della caffettiera risvegliò Daria dai suoi pensieri. Ne versò un poco in una tazzina, e ne bevve. Tornò in salotto, a rimettere a posto le carte. Renzo si sarebbe arrabbiato, a vedere che le aveva tirate fuori un’altra volta. Non c’era tempo da perdere, era in ritardo per il lavoro. Le riordinò in fretta, senza badare di rimetterle nel loro ordine originale. Cercò la busta da cui le aveva tirate fuori. Ma nel farlo alcune di queste le scivolarono dalle mani e caddero a terra.

Si chinò a raccoglierle. L’occhio cadde su una lettera in tedesco. La riconobbe immediatamente. Doveva averne la traduzione da qualche parte. Era la dichiarazione di Friedrich Kessler in merito all’incidente.

La sapevano a memoria, Daria e Renzo. Mille e mille volte l’avevano riletta, e ogni volta Renzo si alterava o si incupiva. Per lui quel tedesco mentiva a sé stesso per non doversi ricordare d’esser stato un kapò. Ma se le cose erano andate effettivamente così, e se quel tizio voleva veramente sciacquare la propria coscienza nei fatti loro, forse avrebbe potuto aiutarli? Che idea assurda. I tedeschi che danno una mano agli italiani. In Germania, però, non conoscevano che lui. Quel freddo paese del nord in cui Renzo non aveva più voluto metter piede esisteva, se non per Friedrich Kessler, solo come immane produttore di lettere, dichiarazioni, sentenze, leggi, solo come produttore di immensa e stupida e inutile burocrazia. Magari era disponibile. Il problema era la residenza? Lui era residente in Germania.

Sentì la serratura scattare e una porta aprirsi. Era Renzo che rientrava. Ripose le carte nel cassetto, controllò l’ora. Era tardissimo. Non salutò nemmeno il marito e scappò in fretta, pensando che quella sera avrebbe avuto da scrivere una lettera.

Egregio signor Kessler” iniziò a buttar giù qualche parola. Si fermò. Come ci si doveva comportare in questi casi? Quanta formalità era richiesta? I tedeschi, poi, magari non sono così formali come noi. “Caro signor Kessler”, forse era meglio. “Caro Kessler”? Lo valutò e rivalutò, le sembrava il modo più consono di rivolgersi a quell’individuo, nonostante per anni Renzo lo avesse dipinto come il peggiore degli aguzzini. Se fosse stata gentile, si era detta, se si fosse rivolta a lui con un tono franco, forse avrebbe avuto una possibilità in più di convincerlo.

Scrisse in fretta una lunga lettera, e si sorprese lei stessa della facilità con cui l’aveva fatto. Non ci fu bisogno di inventare nulla, né di mentire sulle proprie intenzioni. Raccontò sé stessa, i loro tentativi di ottenere qualcosa, la voglia di riscatto che aveva abbandonato Renzo. La loro ultima speranza, se speranza c’era ancora, era lui. Prendere una residenza fittizia in Germania.

Qualche giorno dopo, sfruttando una pausa dal lavoro, spedì la lettera.

Daria aspettò una risposta per mesi. Non lo aveva detto a Renzo. Era combattuta tra la voglia che Kessler accettasse e la preoccupazione che, in questo caso, avrebbe dovuto raccontare tutto a Renzo.

Un giorno quella lettera arrivò. Nell’aprirla, lesse l’indirizzo da cui era stata mandata: Frankfurt am Main. Mittente: Johannes Kessler. Era il fratello. Scriveva al suo posto perché sapeva che una lettera spedita in Italia dalla Germania dell’Est sarebbe risultata sospetta. Le rimproverava l’imprudenza di aver mandato un lettera così disinvolta senza pensare che altri avrebbero potuto leggerla. Al pensiero del pericolo che aveva corso Daria trasalì, sapendo bene che quello era un dettaglio da tacere a Renzo. La risposta, alla fine, era sì. Si ricordava, Friedrich, di quel soldato italiano. Gli dispiaceva che non fosse riuscito a ottener nulla, era convinto infatti che la sua testimonianza fosse servita. Se si trattava di una mera formalità, di un timbro su una lettera, di una finta residenza, era qualcosa che si poteva fare. Potevano fingere di trasferirsi a Francoforte.

Daria ormai erano giorni che se ne andava in giro con la lettera. Al marito non diceva nulla. Quando lo vedeva, lo evitava, scappava in un’altra stanza, timorosa che Renzo capisse. Bisognava dirglielo, altrimenti della cosa non si sarebbe potuto far niente. Una sera allora si risolse a ottenere l’attenzione di Renzo: sul finir della cena, subito prima del caffè, provò ad accennare: «Devo dirti una cosa.»

Renzo era già con gli occhi puntati sul televisore, e Bruno Vespa stava iniziando a illustrare le notizie del giorno. Renzo se le sarebbe sorbite tutte fino allo sport. Rispose con un mugugno che assicurava un

qualche tipo di attenzione.

«Insomma, è inutile girarci attorno, ho scritto a Kessler e ha detto che possiamo prendere la residenza da lui», aveva detto Daria nel frattempo.

«Scusami?»

«Cioè non da Kessler, dal fratello in Germania Ovest.»

«…»

«Non ci dobbiamo traferire veramente, è così, una formalità, così ci danno i soldi.»

Renzo non era sicuro di aver capito bene. Anzi, non aveva capito proprio niente. Così, come prima reazione, gli sarebbe venuto da bestemmiare, ma, in osservanza di una specie di voto familiare che gli impediva di farlo in casa, si alzò dalla sedia, fece un paio di giri attorno alla tavola, con le più irripetibili espressioni stampate sul viso, si diresse verso la porta, prese cappotto e cappello, e uscì.

Tutto questo lo fece mentre Daria, ancora seduta a tavola, aspettava in silenzio che il marito digerisse l’informazione e dicesse qualcosa.

Renzo si era infilato nella 500 e aveva iniziato a guidare, senza meta apparente, attraverso paesi e paesini, strade pressoché identiche, distributori di benzina, cartelloni pubblicitari, in quella che ormai s’avviava a farsi periferia di Milano. Aveva visto le strade prima vuote, poi abitate dagli avventori della notte, in qualche quartiere, fuori da qualche locale, giovani, da altre parti teppisti, brutte facce, prostitute. Aveva visto i nuovi palazzoni, svettanti verso il cielo, aveva visto cantieri aperti e cantieri abbandonati, e intanto processava mentalmente trenta e più anni di storia e vita personale, trent’anni di guerra e massacri e deportazione e fabbrica e infine il ritorno in patria, e il ritorno nel vecchio e caro borgo non più borgo, ormai città, e il suo lavoro di fornaio, ogni giorno identico, ogni giorno a letto e ogni notte al lavoro di fronte al forno che cuoceva, solo che quel forno cuoceva pane che era nutrimento e vita e quelle vasche cuocevano soda caustica che era guerra e cuocevano lui, lo ustionavano fino al petto e gli ustionavano un occhio, il destro, che ormai non aveva più, da trent’anni.

Fermò la macchina sul ciglio della strada, e si prese la testa fra le mani. Nulla di tutto questo aveva senso, nulla di quel passato. Ma Daria cosa voleva ottenere? Non si ha una casa, due stipendi, i figli sono fuori ormai, anche loro avviati, con lavoro e famiglia? Non era questo che si voleva? E quell’altro, il tedesco, l’aguzzino, il kapò, perché tornare ora a tormentarlo? Perché intromettersi? Per i sensi di colpa? Friedrich Kessler, l’uomo che l’aveva condannato all’invalidità e che adesso lo voleva aiutare.

Fu quando smise di piangere che avviò l’auto e ripartì. Riprese il suo percorso attraverso strade lontane chilometri e chilometri da casa. Vide una luce, qualcuno fuori da un locale, non se ne curò e continuò il suo eremitaggio notturno.

Le ore erano diventate quattro, cinque, sei, e Daria aveva smesso di contarle perché, con una coperta sulle gambe, si era addormentata ancora vestita, sul divano, in attesa.

Il buio della notte avvolgeva ancora i blocchi di cemento della periferia e Renzo iniziava a sentire la stanchezza e le palpebre abbassarsi. Che senso aveva quel girovagare nella notte?

Tornava dunque il reduce a casa, tornava a Trezzo sull’Adda. Prima però si fermò al forno.

«Signor Tinelli, che sorpresa!»

«Papà!” fece suo figlio Celestino. “Stanotte dovevi mica stare a letto?»

«Si, sono passato solo a vedere come andava. Già fatte le prime sfornate? C’è un po’ di pane?»

Suo figlio prese due filoni, li mise in un sacchetto e preparò anche un piccolo vassoio di dolci.

«Ti aggiungo due krapfen, li abbiamo appena fatti, è una nuova ricetta.»

La parola suonò sinistra.

«Portali alla mamma, ma intanto provane uno, e dimmi com’è.»

Renzo prese in mano il dolce e lo addentò timidamente. Non s’aspettava altro che un bombolone alla crema con un nome esotico, e invece rimase sorpreso dal sapore della marmellata di albicocche, e in quel momento si sentì a casa, in pace con sé e col mondo, un po’ in colpa per aver probabilmente fatto preoccupare sua moglie.

«E così sarei io quello che passa i giorni sul divano!»

Daria si risvegliò di soprassalto al rumore del marito che entrava in casa.

«Ti ho portato qualcosa per la colazione.»

Renzo era stranamente loquace quella mattina.

«Ma dove sei stato? Mi sono preoccupata a morte.» rispose lei.

«Preoccupata a tal punto da ronfare davanti alla TV. Tieni, mangia, metto su il caffè.», e si diresse in cucina.

Daria cercò di mettersi in piedi, risistemandosi come poteva i vestiti stropicciati e i capelli arruffati, e seguì il marito che si attivava per prepararle la colazione. Quando fu pronto il caffè, aprì la confezione che aveva portato che si rivelò piena di dolci.

«Prova questi,» fece lui «e dimmi un po’ cosa hai fatto.»

Trezzo sull’Adda – 1979

Mentre passano da sopra l’espositore la torta paciarela, la moglie di Sauro non stacca lo sguardo dal suo, e gli versa troppo brachetto nel bicchiere. La storia la conosce da quando lei e suo marito erano ancora ragazzini, ma il diario l’ha letto solo la domenica prima.

«Era molto innamorato, vero Daria?»

«Eh Daria? Ero molto innamorato, vero?»

E la prende per il fianco, con la mano bagnata, dove un giorno c’era stata una vita sottile e della pelle tesa, e adesso sente strati di vestiti grezzi e carne che cede. Le da un bacio sulla guancia. Daria per un secondo fa resistenza, e poi cede.

«Va là con ’sto vino, basta, guarda cosa hai fatto al vestito. Vai a parlare fuori, piuttosto.»

È su di giri, Renzo, composto, ma freme e non vuole sedersi nemmeno quando hanno finito di distribuire i dolci. Il telegramma è arrivato un paio di giorni prima. Sulla porta c’è un cartello che recita “Il pomeriggio il negozio rimarrà chiuso”. Clienti abituali, amici, famiglia sono venuti per l’ora di pranzo. C’è anche l’avvocato che ha portato una bottiglia di vino; quasi tutti sanno già la notizia. Chi conosce la vicenda per filo e per segno, sentendone parlare da piccolo come di una “maledizione” – lettere su lettere di carta velina battute a macchina in una lingua incomprensibile – chi da poco e in maniera sfuggente, chi conosce tutta la trafila di sentenze e tribunali: intorno al tavolo tutti si aspettano il discorso ufficiale dell’uomo segnato dall’età e dai chili in avanzo che sembrano avergli ingentilito il volto con le sue cicatrici, il buco al posto dell’occhio. L’uomo che parla, infine, per la prima volta davanti a tutti. La voce arranca, ma non si interrompe. Daria è dietro di lui, in disparte: vuole vedere le facce indistinte degli spettatori, come una maschera che assiste all’epilogo della commedia da dietro il sipario.

Ringrazia tutti di essere venuti e si commuove a parlare del figlio che adesso dovrà caricarsi tutto il lavoro sulle spalle; scherza con sua nuora scusandosi per le nottate che il marito dovrà passare al forno, e si scusa anche con Daria perché adesso starà a casa anche la notte. Un brindisi. Daria è l’unica che non ride spensierata. Conosce la capacità del marito di fuggire di fronte all’azione. Vorrebbe chiedere, incalzare, ma una vita insieme arrotolata intorno a un discorso mai affrontato non si può risolvere ad una festa; questa non è l’ultima scena dello spettacolo. Quasi senza volontà si avvia al frigo e divide mentalmente i pezzi di millefoglie contando sulle dita il numero degli invitati.

Renzo è stanco, ma l’età e anni di ritmi invertiti lo hanno reso quasi insonne. I figli hanno deciso di regalargli due settimane di villeggiatura a Tropea. Daria è anche più stanca di lui. Rientra in vestaglia in camera da notte e vorrebbe solo dormire e far risposare le caviglie gonfie. C’è qualcosa di quella giornata che continua però a sfuggirle: non capisce perché il marito durante il brindisi finale non abbia parlato della pensione tedesca. Vuole sapere cosa è successo, ma quando parla, ancora una volta, le sue parole cambiano forma da come se l’era immaginate.

«Oggi ho parlato un secondo con Salvi, per le carte possiamo passare giovedì prima di pranzo.»

Non risponde, fa finta di dormire. Daria si sdraia accanto a lui. Da domani la sua vita sarà un po’ diversa: Renzo starà più a casa – proprio nel momento, andati via tutti i figli, in cui potrebbe anche non starci. Lei tra qualche anno dovrà accudirlo, e attendere la vedovanza. Torna indietro per qualche secondo a quando fantasticava sul suo Renzo dal naso aquilino e i capelli imbrillantinati che tornava vittorioso e pieno di storie eroiche da raccontare, e poi al momento in cui si presentò, già suo marito, sulla porta di quella casa dove ancora vivevano, con una benda sull’occhio e a quella prima sera passata insieme. Qualche particolare, con un moto strano della memoria, le fa tornare in mente una cosa molto importante che si era dimenticata di dirgli.

«Ha mandato un telegramma Kessler con gli auguri.»

Renzo riapre l’occhio e si tira su.

«E chi l’ha detto a Kessler che andavo in pensione?»

«Penso di averglielo detto io l’altro giorno per una cosa di tasse da pagare.»

«L’hai avvertito della conferma arrivata dall’ACLI?»

«No, pensavo volessi dirglielo te.»

Rimane pensieroso, e si alza per andare al bagno. Quando torna, invece di rimettersi a letto, si siede sulla poltrona di velluto dal lato di Daria, e la guarda.

«Dovremmo ringraziarlo.»

Daria si siede sul letto e prende le pillole per la pressione.

«Daria, io penso che dobbiamo prendere tutta la pensione.»

Non la chiamava mai per nome, se non quando doveva dirgli qualcosa di grave, o perentorio. In questo caso le intenzioni combaciano.

«Ma sei matto?»

Renzo stringe la mascella.

«La pensione italiana ce l’ho, se aspettiamo un paio d’anni magari riusciamo a avere tutta quella tedesca e non solo per due anni, e possiamo prender casa a Tropea. Così si sta con i nipoti l’estate.»

Daria si spaventa.

«Io non ci voglio andare a Tropea! È un viaggio lungo e tra qualche anno non è che avremo tutta questa voglia di imbarcarci. Che pensi, che Rina quando avrà figli vorrà portare noi due vecchi giù fino in Calabria e tenerci per un mese, eh?»

Renzo si siede sul letto accanto alla moglie.

«Daria, tanto vale. A me della cosa in se non mi importa più tanto. E se tu non vuoi andare a Tropea, prendiamo una casetta da un’altra parte.»

«Allora sai che c’è? Non andiamo a Tropea nemmeno quest’anno. Andiamo in Germania a trovare Kessler e sua moglie. E gli portiamo un regalo.»

Lui rimane ancora in silenzio e sorride. A quell’idea che non aveva mai contemplato in vita sua Daria è felice: forse è successo qualcosa di cui nessuno di loro due si sarebbe accorto. Per un secondo stanno a guardarsi, due occhi miopi contro uno, come il giorno in cui Renzo era tornato a casa.

Dopo la caduta del muro e la riunificazione della Germania una legge del nuovo stato estese il diritto di indennizzo anche ai non residenti in Germania. Renzo Tinelli ricevette tale pensione dal gennaio 1992 fino alla sua morte, nel luglio dello stesso anno.

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