Dica: Lo giuro (Francesca Cozza, Ines Chadri, Fabiola Troiano, Salvatore Gianninò)

@Ludo87  Lei è una grande! Tanta stima!
@BlackHead E poi c’è ancora certa gente che osa dire di non essere razzista…
@JackFlow Alfonso sei una merda! Ritirati!

 

Il sole era da poco sorto e Sofia si destreggiava tra coltelli, latte e utensili, per preparare un frullato di fragole e kiwi. Aveva compiuto da poco ventun’anni e lavorava saltuariamente come babysitter. Il resto del tempo lo spendeva in progetti culturali e collaborazioni, impegni che portava avanti per passione ma con l’obiettivo ricavarne un giorno uno stipendio mensile. Quello a cui teneva di più era il suo blog personale, The Dark Side, dove pubblicava articoli di cronaca politica e locale, con l’intento di mostrare la verità oltre le apparenze dei TG nazionali.

Youssef le diede un bacio, proprio mentre lei gli chiedeva di chi si sarebbe occupato quella mattina.

– Kamal… – rispose lui pensieroso – Devo incontrare sua madre. Non si vedono da anni, da quando lui è stato dato in affidamento ai Servizi Sociali.

Mi ricordo di lui… – commentò lei, ma il rumore del frullatore sovrastò il resto della risposta. Youssef riempì il thermos verde e lo infilò nello zaino, pronto a partire.

– E tu invece? oggi vai al Centro? – le chiese, con le chiavi in mano.

– Già … e questo pomeriggio credo che comincerò a buttare giù qualche idea per quell’articolo che ti dicevo.

Si salutarono e Youssef si fiondò per le scale. Era molto fiero del suo lavoro e Sofia lo ammirava per questo. Aveva ventisei anni ed era da poco entrato in servizio come assistente sociale presso il Comune di Tramonzi. I suoi genitori erano marocchini, emigrati come molti dal paese d’origine alla fine degli anni 80, ma lui era nato in Italia.

“Ehi, Ibrahim. Guarda che il tè si raffredda”
Ahmed, il suo compagno di stanza, lo riportò alla realtà con una pacca sulla spalla e quelle poche parole in arabo. Alla fine ce l’avevano fatta: qualche settimana prima di quel tè, erano sbarcati in Italia e dopo pochi giorni erano stati sistemati al Centro d’Accoglenza di Tramonzi, un comune della provincia di Foggia.

 “Grazie Ahmed… a momenti lasciavo raffreddare l’unica cosa calda in questa stanza gelata” gli rispose mentre sorrideva di sé stesso e portava la tazza alla bocca.

Ibrahim e Ahmed, avevano intrapreso lo stesso viaggio e il giorno dell’arrivo, avevano scoperto di essere assegnati alla stessa stanza. Erano partiti dalla Somalia, insieme a tanti altri, ma si erano conosciuti solo sul barcone diretto in Sicilia. Il loro legame si era consolidato in breve tempo e, arrivati a Tramonzi, avevano condiviso fin dai primi giorni alcune piccole abitudini, come quella del tè caldo, quando il freddo diventava insopportabile. A pranzo, sedevano sempre vicini allo stesso tavolo e dopo cena, cercavano di imparare la lingua italiana, studiando sui libri disponibili al Centro.

Non era semplice fare di un limbo una casa, ma entrambi si ripetevano, giorno dopo giorno, che la situazione era momentanea e che quel viaggio sarebbe stato un’occasione per ricominciare.

Tuttavia, da quando era arrivato a Tramonzi, Ibrahim non riusciva a prendere sonno. Il pensiero dei suoi tre figli, così distanti, la nostalgia dell’odore della terra arida, e più di ogni altra cosa, quel terribile freddo, non gli facevano chiudere occhio neppure per un paio d’ore. La temperatura glaciale e l’umidità dei piani residenziali erano veri flagelli, ma nessuno dei responsabili se ne preoccupava, nonostante Ibrahim avesse segnalato più volte che i termosifoni rimanevano freddi a tutte le ore.

Dopo aver bevuto il tè con Ahmed, decise di aspettare l’arrivo della direttrice del Centro, prima di andare nuovamente a parlarle del problema.

Quando vide entrare la dott.ssa Scalisi, le concesse dieci minuti per mettersi comoda, quindi si alzò e le bussò alla porta.
Dopo due minuti buoni, la direttrice gli aprì la porta e lo guardò sorpresa.

– Ah, è sempre lei. – disse fermandosi sullo stipite, – Mi dica. Qualcosa non va?
– Mrs Scalisi, I’m sorry to bother you again… – le rispose Ibrahim, intuendo il tono di domanda nella voce della donna. Parlò molto lentamente, per essere compreso, e le spiegò che il problema della temperatura non era ancora risolto, al punto che molti soffrivano non solo per il freddo ma anche per le notti insonni, a tentare di riscaldarsi. Lei rispose come sempre: il problema era stato segnalato a chi di competenza e lui doveva capire che c’erano questioni più urgenti da risolvere.

– I’m sorry, Mrs Scalisi, but I’m so tired and my room is too cold…

– Ho capito, ho capito. – sbuffò la donna – Le assicuro che faremo il possibile

– But…What does it mean possibile? I would …

– Qualcuno verrà non appena si saranno risolti affari più urgenti.

– But, you told me the same thing two weeks ago! – protestò Ibrahim

Nel frattempo, Sofia stava girando per i corridoi della stessa struttura, alla ricerca di qualcuno da intervistare. Il Corriere del Gargano, un giornale regionale, aveva appena indetto un concorso, che proponeva come premio la pubblicazione del miglior articolo di cronaca e un anno di lavoro in redazione. Quando aveva saputo di quel bando, le era sembrata una buona occasione: oltre ai chiari risvolti economici, in ballo c’era la possibilità di essere letta da gente che non sapeva neppure dell’esistenza della sua pagina web.

Vista l’attenzione mediatica, aveva deciso di occuparsi dei profughi ospiti da qualche settimana nel Centro di Prima Accoglienza di Tramonzi. Voleva intervistarli e raccogliere le loro storie, riguardo all’esperienza appena vissuta e alla permanenza nel Centro.

Per questo motivo, già da qualche ora vagava per i corridoi della struttura, con il registratore e il taccuino in mano, quando finì per trovarsi vicino all’ufficio della dott.ssa Scalisi, mentre questa era impegnata in una vivace discussione con uno dei migranti. Sentendo che il tono delle voci cresceva, finse di sistemare dei fogli in un angolo.
La dottoressa concluse il confronto sbattendo la porta in faccia al ragazzo, intimandogli di tornare nella sua stanza. Sofia colse al volo l’occasione e lo avvicinò per chiedergli spiegazioni.

– So many nights, I can’t sleep! Here is too cold! We are freezing and they don’t do anything

Al termine della testimonianza, l’aspirante giornalista del Corriere del Gargano gli chiese il permesso di inserire quelle dichiarazioni nell’articolo che stava preparando.
Il ragazzo, Ibrahim, le domandò se lo avrebbero pubblicato davvero.

– I hope so –  disse lei, cercando di spiegargli che doveva vincere il concorso, per vedere l’articolo pubblicato sul Corriere.

Quando tornò a casa, cominciò a mettere in ordine gli appunti e a scrivere l’articolo. Alla fine si sorprese, rileggendolo, a pensare che era uno dei suoi pezzi migliori.

 

I giorni passarono lenti. Ogni mattina, Sofia aggiornava la pagina del sito www.corrieredelgargano.it, solo per constatare che il vincitore del concorso non era stato proclamato. Youssef le passava accanto, sporgendo il collo quel tanto che bastava per sbirciare la solita schermata.

Solamente dopo due settimane di attesa, all’improvviso i risultati furono pubblicati. Il vincitore era un tale Alfonso Zambelli, che Sofia non conosceva.

Ecco sfumata l’ennesima possibilità di portare a casa dei soldi con assiduità.

Youssef la vide abbattuta e la seguì, mentre lei si alzava per bere un altro caffè.
– E dai, – disse cingendole i fianchi e baciandola in testa – Sarà anche l’unico giornale che leggono da queste parti, ma non è l’unico giornale del mondo. E poi hai sempre il blog”

Quella sera stessa, Sofia rimaneggiò l’articolo che aveva scritto per il giornale e lo rese più personale, coerente con lo stile che teneva sul blog. Aggiunse il nuovo post su The Dark Side e se ne andò a dormire, finalmente rilassata nonostante la delusione.

 

Il giorno dopo Youssef tornò a casa con una copia del Corriere e un’espressione indurita.

– Meglio che tu non sia finita a lavorare in quel posto di merda, – disse gettando il giornale sul tavolo.

Sofia lo prese e andò alla quarta pagina, dove un titolo vagamente sarcastico troneggiava sopra l’immagine del Centro d’Accoglienza:

I rischi gastronomici dell’accoglienza

di Alfonso Zambelli

– Non ci posso credere – disse Sofia, infilando il naso tra le pagine per leggere meglio le parole scritte in piccolo.

Dopo una breve presentazione del vincitore del bando, nonché nuovo membro della redazione, cominciava l’articolo di denuncia, in cui Zambelli denunciava come un migrante, non contento delle strutture messe a sua disposizione, aveva aggredito la direttrice, che per fortuna era riuscita a fuggire. A causa delle violenze, la direttrice – che era anche sua moglie – non avrebbe potuto lavorare per diverse settimane e non si sapeva ancora se avrebbe ricevuto l’assicurazione per danni sul lavoro.

“Chiunque nella nostra comunità – concludeva Zambelli – ha il diritto di sentirsi minacciato, dopo un avvenimento tanto grave. Ed è per questo che ho scelto di scriverne. Perché ogni marito, come me, ogni padre, sappia cosa c’è in giro per le nostre strade, insieme alle nostre mogli e alle nostre figlie

– Ma… non è così che è andata! – esclamò Sofia finendo di leggere.

Spiegò velocemente a Youssef quello che aveva visto e mentre parlava aprì il computer. Si collegò alla pagina Facebook del Corriere del Gargano, per vedere se erano state pubblicate delle smentite. Il link al nuovo articolo era stato fissato in alto, e sotto imperversavano commenti allarmati e razzisti.

Leggendoli, Sofia fu colta da un moto di disgusto. Cercò di trattenersì ma dopo qualchem inuto cedette al desiderio di affermare la verità.

@AlfonsoZambelli Spero che tutto quello che ho letto sia solo un grosso errore e che al Corriere del Gargano non siano stati così incompetenti da non verificare un articolo prima di pubblicarlo. Quel giorno ho assistito alla scena: non c’è stata nessuna aggressione fisica ai danni della direttrice. Questo articolo è zeppo di mezze verità e omissioni e sono state tralasciate le vere cause dello scontento degli ospiti. Se qualcuno vuole saperne di più, può leggere il mio articolo su www.thedarkside.com.

Sapeva che avrebbe sollevato un polverone, e come previsto, le risposte non si fecero attendere.

@Darksidesofie Questo è un giornale serio e professionale. Valgono a poco le lamentele di una ragazzina arrabbiata perché il suo articolo non ha vinto il concorso. Non è difficile capire che vuoi solo farti pubblicità con metodi di dubbio gusto, così come non è un mistero che tu conviva con un certo Youssef Benabdellah, pagato dal comune, con le nostre tasse, per occuparsi di clandestini e altra marmaglia.

Sofia rimase immobile davanti al portatile, mentre gli insulti e i commenti si moltiplicavano. Alla fine spense il computer e lasciò perdere, cercando di farsi scivolare addosso tutta quella sporcizia. Per giorni continuò a ricevere commenti pieni di disprezzo, mentre Youssef moltiplicava i tentativi di consolarla.

Quella mattina Ahmed era andato nella sala ristoro con l’obiettivo di prendere un caffè alle macchinette. Uno degli operatori era intento a leggere il giornale ma appena vide il ragazzo si alzò e andò via, lasciando il giornale piegato sulla pagina che stava leggendo. Avvicinandosi, Ahmed vide una foto del Centro d’Accoglienza, attorniata da colonne fitte di parole italiane. Incuriosito dall’immagne, pensò a un modo per tradurre l’articolo, e si recò al vecchio pc messo a disposizione degli ospiti del Centro.

Ibrahim guardava curioso il suo compagno di stanza mentre questi scorreva pian piano l’articolo e tentava di tradurlo. Presentiva che non fosse nulla di buono. Si ricordava di quella ragazza che era venuta al Centro ad intervistare lui ed altri, ma Ahmed gli aveva detto che l’autore dell’articolo era un uomo.

Dopo qualche minuto Ahmed comunicò all’amico il contenuto dell’articolo e aprì Facebook. Con una breve ricerca trovò la pagina del giornale. Il post con l’articolo appena letto aveva già ricevuto centinaia di like e svariati commenti, ma solo uno di essi attirò la sua attenzione. L’autrice – la riconobbero dalla foto – era la ragazza che aveva intervistato Ibrahim qualche giorno prima e il suo commento era seguito da una ventina di repliche. Si decisero a tradurre quel fitto insieme di scambi e, dopo una serie di considerazioni, si decisero a mandarle una richiesta d’amicizia e un messaggio.

 

Qualche giorno dopo l’umore di Sofia continuava a scivolare verso il basso. Youssef, entrando in camera, la trovò distesa, quasi nuda e con le sue Beats che le pompavano senza sosta sui timpani. Le toccò i piedi e con uno scatto lei si accorse che era entrato e si tolse le cuffie.

– Vieni a mangiare? – le disse.

– Non ho fame – rispose lei.

Si stese anche lui sul lettone e la strinse al petto.

– Mi dispiace, Sofi

– La cosa che mi fa più incazzare è che hanno messo in mezzo te. Per cosa poi? Una donna non è in grado di avere le sue opinioni? Ci deve per forza essere un padre, un marito, un fidanzato che la condiziona? –

– Sai, quand’ero bambino c’era un tizio in classe con me che mi prendeva sempre in giro. Mi chiamava nasone, e gli altri gli andavano dietro. Io me la prendevo un sacco, ma non reagivo. Avevo paura del gruppo, ma soprattutto delle mani di mio padre una volta tornato a casa. Una volta sto ragazzino mi chiese se potevo mettermi un attimo di profilo, perché il sole era troppo forte – A questo punto entrambi scoppiarono in una risata liberatoria. – E aveva ragione… – continuò lui, sempre ridendo – avevo davvero un naso enorme per un bambino di 12 anni. Ma ai tempi mi prendevo molto, troppo sul serio: era davvero insopportabile per me. Solo che non sapevo cosa fare. Un giorno, verso la fine dell’anno scolastico, mi venne un’idea. Mi presentai a scuola con un paio d’occhiali finti, col nasone di plastica e le sopracciglia folte. Hai presente, no? I miei compagni di classe per poco non crepavano dal ridere, e io con loro. Solo lui, quello che aveva cominciato a sfottere, stava in disparte. L’indomani fu assurdo. Era come essersi svegliati da un incubo. Nasone era morto ed era tornato Youssef.

– Beh – disse lei, come assorta – però a volte ritornano… nasone! – Mentre lo prendeva in giro gli infilò un dito su per una narice e lui cominciò a divincolarsi, divertito. – Ma perché questa storia… nasone?

– Forse dovremmo lasciarci ispirare dal bambino che ero – le rispose lui con uno sguardo malizioso. – Forse dovremmo dare al signor Zambelli quello che vuole

– E cosa dovremmo dargli? La vera storia del diavolo, che si incarnò in un migrante morto di fame e in fuga da mille guerre?

– Non esattamente – disse lui alzandosi e prendendo il cellulare. – Sorridi alle telecamere – aggiunse sistemando lo smartphone su una mensola della libreria, proprio di fronte al letto.

– Ma cosa stai facendo? – domandò lei, sorpresa – Sei impazzito?!

– Non capisci? Dobbiamo fare come Manzoni, ma invertendo i tempi. Prima il racconto del Mercante di Milano e dopo la realtà dei fatti – le rispose lui, pieno di entusiasmo. – Secondo Zambelli, tu difendi gli immigrati perché stai con uno di loro. Ma noi sappiamo che l’intera questione nasce da una fake news, da una persona che prende ciò che gli viene riferito e lo scrive, senza fare verifiche, senza porsi domande, soprattutto se ciò che gli arriva all’orecchio è coerente con la sua visione del mondo. E se fossimo noi a creare proprio quelle dicerie che fanno gola al nostro Mercante?”

Sofia rimase in silenzio per qualche secondo, cercando di comprendere le parole di Youssef. Poi guardò lo smartphone sulla mensola e di colpo capì.

– Dio mio… sei un genio! – disse dandogli un bacio.

– No, sono solo molto arrabbiato con te, HAI CAPITO? – le rispose lui, ricambiando il bacio e alzando la voce, come in preda a uno scoppio di rabbia. Subito dopo indicò energicamente la parete dietro il letto, che confinava con l’appartamento del cavalier De Roberto e le fece cenno di continuare la lite, un attimo prima di avviare la registrazione e tornare a sdraiarsi.

Solo a quel punto Sofia comprese a pieno l’idea del suo ragazzo.

Il cavalier De Roberto era un pensionato sulla settantina – vedovo, ex democristiano e grande sostenitore del Corriere del Gargano – che viveva nell’appartamento accanto al loro. Solo da poco, avevano scoperto che il Cavaliere supportava il Corriere del Gargano non solo per l’orientamento dei suoi articoli, ma anche perché un suo carissimo nipote – Alfonso Zambelli – era entrato a far parte della sua redazione.

– MA COSA VUOI DALLA MIA VITA EH? DIMMELO! – urlò a sua volta Sofia.

– RISPETTO, ECCO COSA VOGLIO! HAI CAPITO YA HABIBTI? – continuò lui, sbattendo un pugno sul comodino.

La chiamava “Ya habibti” almeno una volta al giorno, ma quella era la prima volta che lo faceva urlando.

Continuarono la lite per un po’; poi finsero di andare a dormire in due stanze diverse, spensero la luce e fecero l’amore, cercando di fare meno rumore del solito.

La mattina successiva il puntuale cavalier De Roberto compose il numero del nipote e così la sera dopo, e quella dopo ancora. Riferì che i suoi stimati vicini di casa, la sovversiva e il vucumprà, forse stavano litigando, anzi avevano sicuramente litigato, e che lui si era mostrato per il marocchino geloso e scansafatiche che era. Al quarto litigio, lui stesso si era spinto fino allo spioncino e aveva visto lei uscire in lacrime sul pianerottolo e fiondarsi giù dalle scale. Il giornalista lo ringraziò dell’ennesima telefonata e lo pregò di stare in allerta.

Nel frattempo, l’attività di The dark side era drasticamente calata. Youssef si era fatto vedere varie volte in compagnia di una ragazza di colore che nessuno conosceva, mentre quando era solo, lo si poteva trovare svaccato sulla scalinata di via Pirandello, mentre urlava in arabo al cellulare e riempiva di cicche spente il marciapiede sotto di lui.

Era passato qualche giorno dall’ultima telefonata del De Roberto, quando i residenti di via Trecani si affacciarono tutti al balcone.
Sofia stava piangendo. Camminava svelta e piangeva, con una maglietta macchiata di vino e il trucco sbavato. Erano le due di un pomeriggio di novembre, e le urla che avevano riempito via Trecani, si erano spente da poco. Si era sentito un botto e parecchi avventori dell’Osteria Cerbero si erano riversati in strada. Tra loro il sig. Zambelli e vari membri della redazione del Corriere del Gargano – che erano soliti pranzare da Cerbero – avevano visto la giovane donna camminare a passo svelto verso di loro, per poi fermarsi di colpo e voltarsi, prendendo un fazzoletto per asciugarsi il viso. Dall’altro lato della strada, un uomo di colore si allontanava nella direzione opposta.

Riposto il fazzoletto nella borsa, Sofia riprese a camminare verso l’Osteria e si imbatté in Zambelli. Lui le si  avvicinò con fare paterno, chiedendole se stesse bene.

– Non è niente, non si preoccupi – rispose lei.

Sembrava tranquilla e rilassata, ma Zambelli sapeva che era solo un tentativo di nascondere le emozioni dietro una patina di dignità.

Tornato in redazione, cominciò subito a scrivere. Basandosi su quanto aveva sentito da suo zio e su quanto aveva visto coi propri occhi, prese le disgrazie di Sofia come prova concreta dell’incoerenza tra quanto lei professava e i fatti che la vedevano coinvolta.
– Ora che tutti hanno visto di cosa sono capaci questi immigrati, – scrisse nelle righe finali – ora che tutti siete disgustati, rammaricati e scioccati dall’accaduto, forse interverrete? Per quanto potremo sopportare i soprusi di chi abbiamo accolto, a spese nostre? E a chi li difende, a che costo siete disposti a farlo ancora? I rischi che voi stessi correte non sono sufficienti per farvi aprire gli occhi?

Pochi minuti dopo la pubblicazione online dell’articolo, le notifiche cominciarono a inondare i social network del Corriere. Zambelli si avviò all’uscita mentre il suo pc continuava a segnalare con continui bip! l’inserimento di nuovi commenti e reazioni all’articolo.

Dall’altra parte della città, Sofia e Youssef stavano lavorando al computer.

Avevano appena terminato di montare un video, dove documentavano i retroscena della beffa. L’avevano chiamato Dica: lo giuro, dalle frasi d’apertura, quando i due giovani fidanzati introducevano la storia che li aveva coinvolti come se fossero nell’aula di un tribunale americano. Lui, serissimo, le chiedeva – Giura di dire la verità, tutta la verità, e nient’altro che la verità? Dica: lo giuro – A questo punto lei scoppiava a ridere e dopo un paio di secondi riusciva a dire – Lo giuro – mantenendo un’espressione seria ma sorridente. Subito dopo partiva la spiegazione di ciò che era successo in quei giorni di recite e specchietti per le allodole.
Alla fine del video Youssef introduceva un “ospite d’onore”: Ibrahim, che aveva chiesto di essere nuovamente intervistato, stavolta davanti a una telecamera. Le sue dichiarazioni sui fatti avvenuti al Centro e sulle condizioni di salute degli ospiti erano diventate una parte fondamentale di Dica: lo giuro.

Appena Zambelli pubblicò il suo articolo sul Corriere on line, Sofia e Youssef caricarono il video su YouTube, lasciando link ovunque, sui social network e su diversi blog.

Qualche ora dopo, la notizia aveva raggiunto il Centro d’Accoglienza. Tutti gli ospiti avevano visto le riprese, facendosi aiutare nella traduzione. Le reazioni non furono né entusiaste né ammirate.

Non so cosa ci ricaveremo. E se dessero la colpa a noi?

Io ho paura. Se li facciamo arrabbiare non sappiamo cosa potrebbero inventarsi

Non preoccupatevi” disse Ahmed, cercando di placare gli animi “Hanno smascherato il giornale. Vedete quante visualizzazioni sta avendo il video?” Indicò il numero a quattro cifre sulla pagina di Youtube. “Significa che molta gente ne parla, che molta gente sa cosa sta succedendo

Ibrahim rimaneva in silenzio, in disparte. Non avrebbe saputo rispondere alle preoccupazioni sollevate dai suoi compagni di viaggio, ma sapeva di aver fatto bene a rilasciare quell’intervista. Aveva fatto quel viaggio proprio per sfuggire ai soprusi, non per incoraggiarli col suo silenzio.

Qualche giorno dopo, Zambelli fu licenziato e il Direttore del Corriere del Gargano rimpiazzato.

Anche al Centro d’Accoglienza qualcosa cambiò: i riscaldamenti furono sistemati qualche giorno dopo la comparsa del video di Sofia. Ibrahim e Ahmed non ebbero, però, il tempo di gioirne: arrivarono nuovi ospiti e ciò ebbe come inevitabile conseguenza il sovraffollamento.

La settimana successiva, Sofia ricevette tre offerte di lavoro da altrettanti giornali, tra cui un importante quotidiano nazionale.

“Non so cosa fare…” disse rivolta a Youssef, che la guardava divertito dal divano. “Mi sembra irreale!”.

“Adesso che puoi, fai la tua scelta” disse lui, prendendole la mano. “Basta che conservi un po’ di tempo per il tuo umile ragazzo straniero”

“Ma quale straniero, ya habibi[1]” ridacchiò lei. “Non sei tu che citi Manzoni?”

 

[1]              Ya habibi – e la sua variante femminile ya habibti – è un’espressione che qualunque persona di lingua araba ha usato se almeno una volta nella vita ha amato qualcuno. Significa “tesoro mio, mio amore”.