Più piccolo persino delle stelle – Collettivo “Ultima oliva” (Enrico Losso, Daniela Masini, Tania Bergamelli)
Mercoledì 5 settembre 1945
Aveva perso il conto delle onde. Lasciava scivolare i minuti così, con gli occhi semichiusi a fissare quante volte il mare si arrotolava sul lido. Tra le dita lunghe e ossute stringeva forte la sabbia, ancora umida per la notte, poi la faceva scorrere via, quasi a riprendere contatto con i muscoli rattrappiti. L’acqua gli si avvicinava come per chiamarlo ma lui, appena immerso un piede, lo ritraeva.
In Polonia non aveva conosciuto il mare.
Sam l’aveva incontrato due mesi prima, in una notte d’estate che odorava di sale. Oltre la piazza, al di là delle case, vicino al molo, aveva sentito il suono della risacca, mentre tutto era avvolto nel buio. Così aveva visto il mare la prima volta, senza vederlo.
Gli piaceva sedersi sulla spiaggia accanto al relitto. Si rannicchiava all’ombra del barcone piegato su un fianco, sfasciato come lui dalle tempeste che era stato costretto ad attraversare. Si lasciava cullare dal rumore e dopo un po’ i ricordi smettevano di torturarlo.
Non accadeva sempre e non accadde quel giorno.
Poco distante da lì, un pescatore scese dalla barca e la legò al piccolo molo. Masticava tabacco per non cedere al sonno, gli restava un ultimo sforzo. Si passò una mano sul viso cotto dal sole, voltandosi verso la spiaggia. I suoi occhi, biglie nere ficcate tra le rughe, si soffermarono per un attimo sul ragazzo che si era avvicinato. Senza dire nulla, l’uomo arpionò con le braccia la rete gonfia da scoppiare.
Sam era catturato dalla visione dei pesci accalcati l’uno sull’altro, agonizzanti. Un piccolo pesce piatto scivolò sul legno, sbatté la coda più volte sussultando.
Sam si sentì spingere all’indietro, oltre il guscio arenato, fra gli artigli dei ricordi: le bocche aperte dei bambini, i loro costati come cancelli di ossa, i loro occhi come fanali spenti. Inciampò tra le assi e si ritrovò a terra. Le mani del pescatore, indurite dalla salsedine, continuavano a tirare la rete. Il ragazzo iniziò a camminare veloce verso i cespugli al di là della spiaggia.
Sam arrivò al centro di smistamento proprio mentre i soldati inglesi aprivano la porta del basso edificio. Passava di lì alle nove, puntuale, ogni mattina. A diciassette anni aveva già perso tutto, solo le abitudini lo tenevano ancorato alla realtà; e la speranza che dai camion diretti al campo di accoglienza scendesse un volto conosciuto.
Si percepiva subito, tra i nuovi arrivati, l’odore di chi era vissuto in prigionia: inconfondibile, si attaccava al corpo martoriato dai pidocchi e dalla paura di morire. Scesero lituani, tedeschi, turchi. In pochi capivano l’inglese, i più sembravano non ascoltare, distratti dall’odore del mare. Le parole smozzicate in lingue diverse lo fecero sorridere, poi lo punsero le lacrime. Come il giorno prima, come quello prima ancora e come tutti gli altri, nessuno proveniva da Tarnów.
Tornò sui propri passi e raggiunse l’alloggio che gli era stato assegnato, in una casa di villeggiatura requisita a un notaio leccese. Condivideva la stanza con altri due polacchi, scampati anche loro da Mauthausen ma finiti nel lager per colpe diverse dalle sue.
Jacek era uno di poche parole, che se ne stava per i fatti suoi. Nel lager aveva capito che il fiato era meglio risparmiarlo e poi non c’era niente da dirsi, le cose era sufficiente guardarsele sulle facce.
Dariusz, invece, era stato un senzatetto di Varsavia, marchiato con il triangolo nero degli Asozialen, deportato perché non imbrattasse le strade con la sua presenza. Era la persona più allegra della stanza. Diceva dziękuję ai tedeschi per averlo imprigionato, poiché grazie a loro era stato soccorso dall’UNRRA e trasferito in Puglia, a godersi il sole sulla pelle. Con il suo sorriso sdentato aveva svelato a Sam il segreto della storia di Jacek: era stato uno di quelli col triangolo rosa sulla casacca.
Neppure Sam parlava volentieri della sua stella gialla. L’ultima volta che si era proclamato ebreo era avvenuto davanti alla famiglia durante il suo bar mitzvah, nell’inverno del ‘41. Ancora adesso si chiedeva che necessità ci fosse di celebrarlo, così di nascosto, in casa. Non c’era nessuna urgenza di diventare “un figlio del comandamento”, era sicuro che Dio non se la sarebbe presa.
Non aveva niente da fare, si buttò sul letto, nell’attesa che arrivasse l’ora di pranzo. Una lucertola giocava a nascondino sulle lenzuola. La vedeva apparire e scomparire dietro le palpebre che si facevano pesanti.
Alle cinque di pomeriggio il sole aveva iniziato a dare tregua agli abitanti di Santa Maria al Bagno, così Sam si era convinto a uscire. Si era alzato il vento; mentre camminava, la maglietta gli si incollava addosso, marcando il torace magro.
I giorni passavano tra i pescatori che rientravano dal mare e le donne vestite di nero che vendevano le merci al mercato, urlando i prezzi in una lingua incomprensibile. Prima di arrivare in Italia, anche nei momenti peggiori aveva potuto contare sul fatto di conoscere il polacco, il tedesco, l’inglese e qualche parola di russo. Ora invece quei suoni tutti pieni di vocali proprio non gli si ficcavano in testa.
Giunto nella piazza, si fermò a sillabare sottovoce la parola: gra-ni-ta. Era riuscito ad assaggiarla solo una volta, con Dariusz, che ne ordinava una quasi tutti i giorni e aveva imparato a dirlo bene. Gra-ni-ta: non era difficile.
Davanti al bar un gruppo di vecchietti giocava a carte, il mazzo aperto tra le tazzine di caffè e la bottiglia di sambuca. Sam entrò e si avvicinò al bancone. La barista si appoggiò sul marmo appena pulito con lo straccio, in attesa.
Gr, grnt… le sillabe si accavallarono una sull’altra. Poteva percepire lo sguardo degli italiani su di sé. Riprovò: gr, -rnit… non gli uscì niente di sensato.
La barista cominciò a tamburellare con le dita.
Sam non ne poteva più di indicare le cose che voleva, solo perché non era capace di pronunciarne il nome. Non gli restava altra scelta: un’oranżada, come al solito.
«Oran-jiata».
Lei versò l’aranciata nel bicchiere senza notare la pronuncia stramba, cui ormai era abituata. Sam si sedette a un tavolino stretto all’aperto. Gli sarebbe piaciuto essere lì con Dariusz, per avere qualcuno con cui parlare; da solo, non gli rimaneva che origliare la buffa cadenza dei vecchi. Si fece più attento alla parola “ebreo”, che riconobbe simile all’aggettivo hebrajski.
«Quello che m’ha raccontato uno di loro, un ebreo…», l’uomo, vedendolo, abbassò il tono della voce. «Poveracci!»
A Sam parve che quell’ultima parola fosse carica di disprezzo. Balzò in piedi con uno scatto e fece rovesciare il bicchiere: i cocci oscillarono in terra, una pozza arancione tutt’intorno. Si bloccò sentendosi impotente, stupido.
I vecchi, ammutoliti, si voltarono verso di lui. Uno faceva scivolare l’unghia sul dorso delle carte.
Sam si allontanò, calpestando i vetri. Levò lo sguardo sulla terrazza di fronte e incontrò gli occhi sgranati di una ragazzina. L’espressione indecifrabile, forse spaventata, forse divertita.
Martedì 11 settembre 1945
Un’altra alba si susseguì alle precedenti. Sam trovò un’insenatura dove il mare era poco profondo e s’immerse nell’acqua ancora fredda, lasciandosi riscaldare assieme a lei, intanto che il sole saliva.
Volse gli occhi alla riva dove una chioma bionda riluceva al sole. La ragazzina era a piedi nudi sulla spiaggia, intenta ad asciugarsi i capelli.
Sam si ricordò di avere indosso il costume giallo fornito dall’UNRRA e arrossì. Era quello usato da tutti nel campo per andare al mare, eppure si sentiva ridicolo. Riaffiorò il pensiero di sua madre che difendeva il buon gusto, come ci si aspetta dalla moglie di un pellicciaio, e che mai l’avrebbe mandato da qualche parte senza l’abito adatto.
Ormai era uscito dall’acqua, tremava ma senza dare a vedere che stava gelando. Si fissarono per alcuni secondi, in silenzio e vicinissimi.
«Hallo», le disse. Aveva parlato per primo, meravigliandosi di se stesso. Né, del resto, si aspettava che gli uscisse qualcosa proprio in tedesco. Lei rispose arricciando le guance nel sorriso più grande che Sam avesse mai visto.
«Mi chiamo Gerti». Rispose in tedesco, tendendo la mano, «Gertrude a dir la verità, ma in famiglia mi chiamano Gerti. Tu invece sei il ragazzo che ha rovesciato il bicchiere al bar».
Lo disse con aria di sfida, ma una risata stemperò il tono.
«Mi sono accorta che ti eri arrabbiato, ma quei vecchietti non ce l’avevano con noi!», e Sam capì da quel “noi” che avevano una storia in comune, ma lei sembrava molto più a suo agio di lui.
«Devi imparare l’italiano, io sono qui da un po’ e ti posso aiutare. Gli italiani, ci sono quelli che ti guardano storto e non vogliono sapere chi sei e quelli gentili che ti aiutano, come la famiglia che ci portava da mangiare quando eravamo nascosti nel bosco, l’anno scorso, o la signora Pisacane, la sarta del paese. Lei è buonissima, anche se non sembra, a guardarla tutta vestita di nero e senza sorrisi. Ero con lei sulla terrazza, l’altro giorno, io la aiuto e lei mi insegna a cucire, un pochino, anche se dice che non sono brava, che ho mani da scrittrice che non mi serviranno a niente, nella vita».
Sam non aveva avuto il tempo di aprire bocca. Era affascinato da quella ragazzina con troppe cose da raccontare.
A un tratto si sentì un «Gertiiii» e lei, con pochi passi leggeri, si allontanò.
«È mia mamma, devo andare». Lo salutò con la mano aperta, «Ma ci rivediamo, vero?».
Non gli diede il tempo di rispondere che era già sparita, i sandali in una mano e l’asciugamano nell’altra.
Lunedì 17 settembre
Sam se ne stava seduto sui gradini della chiesa anche se il sole iniziava a scottare. Ancora gli capitava di sentire nelle orecchie la voce della ragazzina, che gli suscitava una specie di nostalgia. Dopo che il timbro caldo, inconfondibile, di sua madre si era spento, erano arrivati gli improperi biascicati tra i denti dai vicini di casa, davanti alla stella gialla cucita sul cappotto, poi lo schnell! impartito dai tedeschi nei campi, secco come una frustata; infine le parole degli italiani, una canzone melodiosa di cui però non capiva il senso. Gerti invece parlava il tedesco, la lingua nemica che ora suonava con inattesa dolcezza.
Le persone si affaccendavano tra le bancarelle ma tutto quel movimento lo lasciava indifferente.
Se fosse passato sotto la finestra della sartoria, magari l’avrebbe vista. Si figurò Gerti intenta a cucire sulla terrazza, socchiuse gli occhi. Chissà se era davvero così maldestra? La immaginò pungersi con l’ago e mettersi il dito in bocca come una bambina.
In un attimo franò con un tonfo e si ritrovò a terra circondato da sogliole e branzini.
«Ma come si fa a essere così imbranati?», sogghignò un ragazzino indicando la cesta che Sam aveva urtato. Gli girò intorno agitando le mani con gesti esagerati.
«Almeno aiutami a raccogliere il pesce, mozzarella!».
Sam si rialzò, il piede che aveva battuto pulsava per il dolore.
Guardandolo dal suo metro e settanta di altezza, il bambino gli apparve per quel che era: un monello di otto, massimo nove anni, magro e scalzo, con un ciuffo di capelli neri.
«Dammi una mano, se no tutto questo pesce a terra te lo faccio pagare! Finché papà non torna, ci devo pensare io alla merce!».
Sam capiva la metà di quello che sentiva, solo una cosa gli era chiara: quel nanerottolo lo stava prendendo in giro e lui non riusciva nemmeno a replicare.
«Eh che sarà mai!», il bambino cambiò tono di fronte alla faccia mortificata del giovane. «Piuttosto, è meglio che guardi dritto quando cammini. A chi pensavi, alla tua bella?».
Sam diventò rosso e il bambino rise, battendosi le mani sulle cosce, come un uomo fatto.
«Mi chiamo Nicola, e tu?».
Sam ripeté quel nome, Nicola, per fissarselo bene in testa, aprendo bocca per la prima volta da quando si era alzato dal letto.
«Ma no, come ti chiami tu! Ce l’avrai pure un nome».
«Samuel».
«Va bene, Samuel. E se ti piace il pesce basta chiederlo, non c’è bisogno che ti ci butti sopra!».
Si stava avvicinando un uomo dall’aspetto imponente. Sam riconobbe il pescatore incontrato alcune mattine prima sul molo. Si chiese se da bambino fosse stato anche lui così esile. In apparenza padre e figlio non si assomigliavano affatto, se non per gli occhi lucidi, simili a due olive nere come se ne raccolgono da quelle parti.
L’uomo sollevò il carretto e si allontanò, senza dire una parola. Nicola lo seguì, non prima di aver fatto una boccaccia in direzione di Sam.
Giovedì 18 ottobre
Il lavoretto in ospedale lo stava appassionando. A ciascun ospite del campo di accoglienza veniva assegnata un’attività e l’incarico di Sam era quello di spruzzare il DDT sui nuovi arrivati, che spesso avevano i pidocchi. Da qualche settimana, in aggiunta, aveva ottenuto il permesso di dare una mano nel reparto pediatrico dell’ospedale: ascoltava le infermiere ed eseguiva quello che chiedevano, per lo più pulire a terra e cambiare le lenzuola. Se non disturbava, poteva restare in disparte mentre i medici visitavano i pazienti: se ne stava con le orecchie tese, affascinato da quante cose si potessero imparare. Dell’ospedale di Strasburgo, dove l’avevano ricoverato appena uscito da Mauthausen, non ricordava un granché. Allora non gli importava di esami e medicine, si lasciava sopravvivere in silenzio.
I bambini erano pazienti particolari, rispondevano svogliati alla domanda «Dove ti fa male?», preferivano giocare con le trottole e costruire torri di mattoncini.
Quel pomeriggio, Sam aveva fatto il giro di visite con Dorothy. Era la sua infermiera preferita, venuta dall’Inghilterra al seguito dell’UNRRA; sembrava l’unica a capire lo spaesamento e le difficoltà con la lingua, avendoli provati lei stessa.
Sam era riuscito a far prendere un antibiotico al paziente della stanza numero 8, un bambino che cercava ogni volta di strapparsi la flebo, gridando fortissimo quando le infermiere si avvicinavano per tenerlo fermo; così non si aveva altra scelta che sedarlo. Sam invece si era messo a giocare con i soldatini insieme a lui. La flebo era durata per tutto il tempo della battaglia.
Le visite si erano protratte più del previsto. Sam si sfilò il camice in tutta fretta, lo appallottolò e lo lanciò nell’armadio. Dopo pochi passi la strada gli fu sbarrata da un’infermiera panciuta, con le mani piantate sui fianchi e lo sguardo accigliato. Non l’aveva sentita arrivare. Prima che aprisse bocca per rimproverarlo, Sam era già tornato indietro e aveva appeso il camice al suo posto. La salutò e si affrettò lungo il corridoio: non si era accorto di quanto fosse tardi, Gerti lo stava aspettando. Sam si precipitò fuori e vide una bici appoggiata a un tronco. Con quella, avrebbe raggiunto Gerti molto prima.
«Prendila. A quello che l’ha lasciata non serve».
Sam trasalì: non c’era anima viva.
«Lo so perché è di mio padre».
La voce si levava con una nuvoletta di fumo dal bordo del marciapiede, dove lo spiazzo finiva e iniziavano i gradini. Si avvicinò piano: il fumo, un naso, una sigaretta tra l’indice e il pollice. Infine Nicola, così magro che, steso sul secondo gradino, risultava invisibile a chi fosse nel cortile.
Indossava il camice dei pazienti.
«Che fai qui?».
«Non lo vedi?».
«Quel…», indicò il camice, non gli veniva la parola, «è aperto. Non hai freddo, lì per terra?».
Per tutta risposta Nicola si voltò di lato, mostrandogli il suo didietro bell’e nudo, la spina dorsale angolosa, la pelle sottile attorno alle ossa. Quindi tornò supino.
«Devi sbrigarti, la tua bella ti aspetta».
Ogni volta che aspirava, le guance si scavavano ancora di più.
«Se sei malato non devi…», si mise le dita a V e finse una sigaretta. «Ti fa male».
«Me ne frego».
Luisa, l’infermiera grassoccia assegnata al piano di Nicola, spalancò la porta d’ingresso, gridando il nome del bambino.
«Ti cercano», disse Sam.
«Ma va’? E se resti lì impalato mi trovano anche».
L’infermiera si era già avvicinata a Sam, che parlava da solo in quel cortile di cemento.
«Ossignore Benedetto! Se lo sapesse il dottor Mele…», strattonò Nicola per un braccio. La mano robusta di lei contrastava con quel polso sottile.
«Non devi uscire mai più senza permesso, hai capito?».
Nicola fulminò Sam con lo sguardo e scrollò la testa come a dirgli Ecco, visto? Bravo scemo.
Il ragazzo rimase a fissare la strana coppia che rientrava, il culetto di Nicola che sbucava dal camice. Il mozzicone a terra era ancora acceso.
Giovedì 25 ottobre
Una figura avanzava verso di lui agitando la mano, un cestino infilato nell’altro braccio.
«La colazione spero! Ho una fame…».
Sam aveva ritrovato l’appetito e le razioni della mensa del campo non gli bastavano mai. Gerti aveva portato del pane croccante, pomodori, olive e formaggio: tutto il necessario per un picnic sulla spiaggia.
«I miei dormivano ancora quando sono uscita, ho dovuto fare pianissimo», parlava a bassa voce come se i suoi genitori potessero sentirla.
«Ah, ecco perché sei scalza!», Sam scoppiò a ridere.
«Hai ragione! Quasi non ci faccio più caso, qui in tanti vanno in giro scalzi».
«Sarà. Io però le scarpe preferisco portarle, e poi in ospedale non si può stare senza».
«Ti ho visto al lavoro, stavi bene con il camice».
«Sai che ho scoperto che mi piace indossarlo?».
«Davvero? Allora vuoi fare il dottore da grande?», Gerti spalancò gli occhi, che sembrarono ancora più infantili, così pieni di sorpresa. Sam ci pensò su, non aveva mai riflettuto su cosa fare “da grande”. Gerti invece non faceva altro che fantasticare, sull’America, sui parenti che li avrebbero accolti, sulla nuova vita da incominciare oltre l’oceano, lontano da lì.
«Perché no?», disse piano. Gerti non lo sentì neppure, intenta a osservare dei gabbiani tuffarsi in mare. «Fare il medico… non uno come il dottor Mele, però!».
«Chi?», rispose meravigliata: Sam aveva alzato la voce senza neanche accorgersene. Non era mai capitato prima.
«È un dottore a cui proprio non piaccio. Quando mi incontra per il reparto non fa che guardarmi storto».
Il dottor Fernando Mele metteva in soggezione l’intero ospedale, con la sua stazza e il portamento eretto, che tradivano una grande sicurezza e un’ambizione ancor maggiore. Attraversava la corsia a lunghe falcate, come un proprietario terriero in visita ai suoi possedimenti. Alcune infermiere si erano invaghite di lui in passato e anche ora, benché il colore dei capelli virasse al bianco, continuava a riscuotere un certo successo.
Tuttavia, nonostante la reputazione da luminare di cui godeva, la sua carriera si era arenata a Santa Maria al Bagno. Un paese microscopico che era diventato centro di raccolta di rifugiati di mezz’Europa, a cui bisognava offrire vitto, alloggio e pure qualcosa da fare. Se li ritrovava persino in ospedale, così smunti che a volte li confondeva con i malati. Voleva diventare primario e trasferirsi, forse addirittura a Londra, possibilità che gli ufficiali dell’UNRRA avevano lasciato trapelare. Era il momento giusto: si trovava a un passo da una scoperta scientifica in grado di garantirgli il futuro che si meritava.
Sam ricambiava l’antipatia del dottore: la sua arroganza gli risvegliava ricordi tristi.
«Neanche a te piace lui, vero?», disse Gerti con un cenno d’intesa.
Sam seguiva il filo dei suoi pensieri: «C’è un bambino, chissà cos’ha? Non sembra malato, ha un’aria… come se ti prendesse sempre in giro. Mi piacerebbe fartelo conoscere».
«Perché? Vuoi che prenda in giro anche me? Io li so trattare, i mocciosi. Cosa credi?», Gerti sollevò il pugno con fare minaccioso, poi si mise a ridere.
«Devo andare ora. Se i miei si svegliano e non mi trovano sono fregata!».
Sam la salutò con una carezza sui capelli biondi e la seguì con lo sguardo mentre correva a piedi nudi verso il paese, il vestito che le svolazzava tutt’intorno.
L’ultima oliva e poi anche lui si sarebbe mosso. La giornata in ospedale stava per iniziare.
Da quando aveva scoperto che Nicola era ricoverato in ospedale, lo andava a trovare ogni volta che il dottor Mele non era nei paraggi.
Non gli era mai capitato di incrociare nessun altro oltre a Luisa, l’infermiera del piano, che si limitava a controllare il polso. Non il padre né la madre, che il bambino non nominava mai.
La solitudine che li accomunava aveva fatto sì che Sam, senza pensarci, avesse iniziato a parlare proprio con Nicola dei campi di concentramento. Di solito, non ne accennava nemmeno a Dariusz, che aveva vissuto la sua stessa esperienza. In quel brandello di paradiso pugliese, dove pareva che tutti vivessero in sospeso tra l’incertezza del presente e il bianco del futuro, il passato restava sulla punta della lingua come un grano di pepe enorme, che non si riesce a sputare e che soffoca a mandarlo giù.
A Sam era scattato qualcosa durante il primo giorno di pioggia a Santa Maria al Bagno. Lui e Nicola erano insieme da alcune ore, senza dirsi niente: il bambino guardava fuori dalla finestra a denti stretti, Sam aveva intuito che avesse male da qualche parte, ma Nicola aveva ignorato ogni domanda, zitto e immobile, lasciando andare di tanto in tanto un gemito sottile. Sam si ricordava bene cos’era resistere al dolore e aveva aspettato in silenzio.
Alla fine, Nicola gli aveva chiesto di raccontargli una storia e Sam aveva perso del tempo cercando di ricordare una di quelle che sua mamma gli leggeva da bambino, tanto che alla fine Nicola era sbottato: «A volte fai delle facce che sembri proprio uno scemo».
«Non mi viene in mente nulla».
«Provaci almeno!».
Fu così che Sam aveva iniziato a raccontare la sua storia, ambientata nei campi di concentramento: c’erano tedeschi malvagi con le fruste, un ragazzino prigioniero che sognava di vivere avventure in altre parti del mondo e dei compagni di camerata che avevano perso ogni speranza. Una volta il ragazzo era stato così temerario da fare una cosa severamente proibita, leggere sul giornale con cui asciugava le finestre una notizia sulla guerra: gli americani avanzavano, c’era una possibilità. L’aveva riferito a tutti, anche a costo di essere scoperto, per infondere coraggio agli altri prigionieri.
Si era immerso nel racconto così a fondo da notare solo dopo un bel pezzo il volto concentrato di Nicola. Il bambino non aveva fatto commenti, si era limitato a indicare il numero marchiato sul braccio e chiedergli: «Te l’hanno fatto i tedeschi quello?».
Venerdì 26 ottobre
Durante il consueto giro di visite con Dorothy, Sam come sempre si mostrò curioso. Imparava in fretta, anche perché il suo italiano nell’ultimo mese era molto migliorato.
Dopo una puntura di eparina, Sam aveva voluto sapere a cosa serviva, in che dosi si somministrava e con quale frequenza. La parola “coagulazione” era difficile, ma gli piaceva come suonava. Continuava a ripeterla per paura di dimenticarla, anche quando erano già passati al paziente successivo.
«Ehi, Mister Coagulazione!», Dorothy rideva sulla soglia. «Che fai lì impalato? Servono ancora le medicine, sai?».
Sam si affrettò a seguirla col carrello dei farmaci, ma prima di entrare lei si girò.
«Tieni», gli allungò un quadernino, «ho pensato potesse servirti».
Quando gli fece scivolare una penna nel taschino del camice, Sam si sentì uno studente a tutti gli effetti. La guardò, senza il coraggio di tirare fuori le parole: Dorothy capì che gli occhi del ragazzo la stavano ringraziando.
Alla fine del giro, Sam si azzardò a porre la domanda scomoda: «Perché non vai mai a visitare Nicola?».
«Beh…», le curve degli zigomi si colorarono di rosso, «perché è un paziente del dottor Mele».
«Anche gli altri».
«Si tratta di un caso complicato, che il dottore segue di persona».
«Che malattia ha?».
Dorothy borbottò qualcosa di incomprensibile, mentre riponeva le cartelle negli schedari.
«Non ho capito».
«Sam, non insistere. Nessuno lo sa di preciso, soltanto il dottor Mele. Ed è questo che conta».
«Davvero? Non lo sai nemmeno tu? Non hai mai letto la sua cartella?».
Dorothy sbatté l’anta dell’armadio.
«Sbirciare una cartella, io? Ma per chi mi hai presa? Perché mai dovrei farlo?».
«Per capire che cos’ha e come aiutarlo! Un dottore non cura da solo un paziente».
«Lui sa quel che fa, non preoccuparti».
«Perché non si può sapere? Anche quando vado nella stanza di Nicola, per esempio, i cassetti non si aprono, sono chiusi…», s’interruppe, aveva di nuovo perso la parola giusta, «con la chiave, ecco. E poi arriva il dottore e mi manda via».
«Il mio turno è finito, me ne vado a casa. Goditi il regalo».
Sam sentì una morsa al petto.
«Dorothy, scusa. Non…», ma lei si era già allontanata.
Sam indugiò per qualche secondo, perplesso, quindi si avviò per le scale.
Quando arrivò nella stanza di Nicola, vi trovò il dottor Mele, chino sul bambino. Stava agitando il sacchetto della flebo appeso al gancio, per controllare che scendesse con regolarità.
Sam si fece avanti senza pensarci troppo: «Cosa gli dai?».
Fernando Mele trasalì, la mossa improvvisa gli fece strappare la flebo. Una goccia di sangue apparve sul braccio di Nicola, il bambino fece appena una smorfia.
Il medico parlò con tono bassissimo: «Tu cosa ci fai qui?».
Sam sentì un brivido lungo la schiena.
«Vengo… vengo a trovare Nicola».
«Che bravo», le mani del medico si muovevano abili a riparare il danno. «Però dovresti saperlo che in questa stanza nessuno ha il permesso di entrare, a meno che non ci sia un’emergenza».
«Che malattia ha?».
Sam vide i muscoli del suo volto contrarsi.
«Febbre reumatica poststreptococcica», scandì il dottore assumendo un tono accademico. «Sei tu quel ragazzino che riempie tutti di domande, non è vero?».
«Mi piace imparare».
«Ah, lo immagino. Non sono in molti gli ebrei che hanno lo stesso privilegio, dopotutto».
Trascorsero attimi di silenzio assoluto.
«Cercherò di essere più chiaro: non puoi stare qui» ma il ragazzo non si mosse.
«Devi uscire subito».
«Ma…».
Il medico chiuse la cartella con un colpo secco. Nicola si svegliò d’improvviso.
Fernando Mele avanzò verso il ragazzo: «Non permetto a nessuno di discutere i miei ordini».
Sam sentì il fiato del dottore, il suo odore di tabacco. Girò la testa verso Nicola: i suoi occhi vacui gli ricordarono quelli dei pesci sul carretto.
Non resistette oltre e uscì dalla stanza.
Lunedì 5 novembre
Sam si precipitò nella stanza con il Corriere dei Piccoli nascosto sotto il camice. Qui comincia l’avventura del Signor Bonaventura: Nicola gli aveva detto che in quel giornale a fumetti c’erano storie bellissime, ma che era riuscito a leggerlo solo un paio di volte.
Così Sam, quando l’aveva notato sulla bancarella della fruttivendola, aveva insistito così tanto che la signora gliel’aveva ceduto invece di usarlo per incartare carote e melanzane.
Si accorse però che non era il momento migliore per consegnare il regalo.
Prima di potersi avvicinare al letto di Nicola, fu inchiodato dallo sguardo turbato di Luisa. L’infermiera portò l’indice alle labbra, per invitarlo a non fare rumore.
Poi gli parlò sottovoce: «Devo andare via per una faccenda urgente. Resta qui con lui, io tornerò tra un paio d’ore».
«Sta molto male?».
L’infermiera non rispose.
«Se succede qualcosa, qualunque cosa, chiama il dottor Mele. Mi raccomando».
Sam si spostò di lato per riuscire a vedere Nicola. Era sdraiato supino, il respiro affaticato.
«Siamo intesi: se serve, chiama il dottore».
Sam rimase solo con Nicola. Gli si avvicinò, lo salutò, provò a dire due parole ma il bambino non era cosciente. Il suo viso scavato era pallido.
Sam rimase fermo così, con il giornalino stretto nella mano, per diversi minuti. Poi si abbandonò su una sedia.
Nicola iniziò a lamentarsi nel sonno: prima qualche suono masticato, poi colpi di tosse sempre più rabbiosi. Quando la tosse si calmò, emise qualche gemito, voltando la testa da una parte e dall’altra, portandosi le mani al collo, come se si sentisse soffocare.
Sam lo chiamò, senza ottenere risposta. Appoggiò la mano sulla sua fronte e si accorse che era bollente.
Guardò oltre la porta, sperando che passasse qualcuno. Gli vennero in mente le parole dell’infermiera, doveva avvertire il dottore. Ma non voleva lasciare l’amico da solo, nemmeno per poco tempo.
Vide una lacrima scorrergli sulla guancia e perdersi sulle lenzuola. Lo sentì chiamare la mamma. E poi iniziò a singhiozzare.
Sam lanciò un’ultima occhiata alla porta. Disse a voce alta: «Torno subito, Nicola».
Corse lungo il corridoio alla ricerca del dottore, scese le scale e bussò al suo studio ma di Mele nessuna traccia.
Sam non sapeva più cosa fare. Ritornò da Nicola salendo a due a due le scale.
Prima di entrare lo sentì urlare. Con uno slancio Sam arrivò sulla soglia. Il dottore era chino sul bambino.
Sam disse qualcosa che si perse nell’aria pesante della stanza.
Il dottore sembrava non essersi accorto della sua presenza. Stava armeggiando con una siringa e una boccetta contenente un liquido incolore.
«Nicola sta male». Sam non riuscì a dire nient’altro che una stupida frase che il dottore ignorò. Non si voltò nemmeno a guardarlo. Riempì la siringa, premette lo stantuffo finché una goccia di liquido schizzò dalla punta dell’ago.
Nicola piangeva e urlava sempre più forte.
Il medico gli immobilizzò il braccio e, con un movimento fluido, iniettò la medicina. Poi appoggiò la siringa sul comodino, sopra il Corriere dei Piccoli.
Poco a poco il respiro del bambino tornò regolare e smise di piangere.
Sam notò che il braccio in cui era stata fatta l’iniezione si stava riempiendo di bollicine rosse. Lo notò anche il dottor Mele che tastò piano la parte. Disse a mezza voce qualcosa, che Sam riconobbe come una parolaccia in italiano. La bocca e le palpebre di Nicola iniziarono a gonfiarsi a vista d’occhio.
Era quello il modo in cui il dottor Mele lo stava curando? Uscì con il cuore che gli batteva all’impazzata e corse fino allo studio del medico.
Sam non sapeva bene cosa stesse facendo né cosa andasse fatto.
Si avventò sulla maniglia che cedette alla sua spinta. L’ufficio non era chiuso a chiave.
La prima cosa che colpì Sam fu il forte odore di medicinale che impregnava l’aria.
Si portò d’istinto la mano su naso e bocca.
Gettò uno sguardo sul tavolo ingombro di libri scientifici e sulla pila di fogli scritti con calligrafia sottile e obliqua. Vide alcune siringhe e dei flaconi di liquido trasparente. Mentre si stava chiedendo se quella fosse la famigerata medicina, sentì un tocco deciso sulla spalla.
Trasalì, si voltò lentamente.
Gli occhi del dottor Mele pungevano come spilli. Aveva le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in una smorfia di disappunto.
«Cosa ci fai qui, giudeo?», il medico gli afferrò un braccio.
Sam rivide nel suo sguardo altri sguardi, sguardi cattivi del passato, sguardi di chi è abituato a farsi ubbidire e non tollera nient’altro che sottomissione. Sguardi impregnati di desiderio di potere, di convinzione di superiorità.
Sam si divincolò dalla stretta.
Gridò un «No!» che gli uscì dalla parte più buia della memoria.
Chiuse gli occhi e corse verso la porta e oltre, fuori da quell’edificio insopportabile.
Notte tra lunedì 5 e mercoledì 6 novembre
Dariusz si svegliò.
Spesso, nel sonno, s’insinuava l’incubo del campo di concentramento. Il mare azzurro della Puglia si trasformava allora in una piatta distesa salata, in cui migliaia di bocche riarse tentavano invano di abbeverarsi.
Per domare quegli attimi di angoscia, aveva imparato a tenere pronti sul comodino un bicchiere d’acqua e il pacchetto di sigarette.
Accese la luce. Il letto accanto era vuoto. Pensò che fosse strano, Sam non aveva mai trascorso un’intera notte in ospedale, quel turno spettava solo ai medici e alle infermiere. Il timore che fosse successo qualcosa svanì quasi subito: in un posto così tranquillo non poteva capitare nulla di grave. Era probabile che avesse trovato una ragazza con cui stare in buona compagnia. Si girò su un lato e si riaddormentò.
Martedì 6 novembre
Gerti trovò Sam la mattina successiva, nel luogo del loro appuntamento, accovacciato vicino al relitto. Le braccia del ragazzo cingevano le ginocchia, strette contro il petto. Era impregnato di salsedine come un vecchio gatto di porto arruffato. In lontananza echeggiava il richiamo sordo del faro.
La ragazza provò con delicatezza a schiudere quel corpo raggomitolato su se stesso. Poco a poco riuscì ad allentare la presa delle mani. Sam reagì con un lungo sospiro.
Gerti si domandava da quanto tempo fosse lì, con ancora il camice dell’ospedale, e soprattutto perché portasse stampato in faccia quello sguardo terrorizzato.
Tuttavia rimase in silenzio. Lo cinse in un abbraccio. Il ragazzo, avvolto da quel calore, iniziò a raccontare, ma la sua voce fioca si distingueva a malapena dal rumore delle onde e dalle grida dei gabbiani. Gerti udì soltanto, o così le parve: «Il dottore fa del male a Nicola».
Provò a domandare: «Non lo sta curando?».
«Gli sta dando delle medicine che lo fanno star male, io l’ho visto», la voce seguitava a tremare, «e mi ha chiamato giudeo».
Gerti fu sopraffatta dal ricordo delle umiliazioni impresse su quella parola come un marchio. L’ufficio dove lavorava suo papà non era più un posto per ebrei, né il tram e neppure il cinema dove andava con le sue compagne di scuola la domenica pomeriggio. Agli ebrei non rimanevano che la fuga e la paura di essere traditi.
Gerti si sentì avvampare.
«Devi dire quello che hai visto!».
Sam guardava a terra.
Gerti afferrò Sam per le mani e lo fece alzare: «Parla con il padre di Nicola, lui farà qualcosa!».
Lo abbracciò ancora.
Notte tra martedì 6 e mercoledì 7 novembre
Il buio della notte divorava la banchina.
Sam aspettava con le mani ficcate nelle tasche della giacca. Quando i pescatori arrivarono dal paese, nelle loro cerate scure, più simili a macchie che a uomini, Sam si avvicinò. Cercò di riconoscere il volto che cercava.
Quasi tutti lo ignorarono. Solo uno sostenne lo sguardo per più di un secondo.
«Tu sei il papà di Nicola, vero?».
Il pescatore iniziò a caricare le reti sulla barca.
«Devo parlare con te, è importante», Sam gli toccò il braccio.
«Non è un buon momento, ho la pesca».
«Nicola sta male. Voglio dire… quello che fa il dottor Mele gli fa male».
L’uomo si calcò il berretto sulla testa.
«Non sai quello che dici, ragazzo».
«Io lavoro in ospedale. Dopo che lui fa le punture, a Nicola vengono delle macchie rosse sulla pelle e si gonfiano gli occhi e le labbra».
«Quali punture? Non c’è nessuna cura per le crisi di Nicola». Fece per salire sulla barca.
«Ma io ho visto tutto…».
«Il dottor Mele fa il suo mestiere, è un bravo medico».
Sam intravide, nel buio, gli occhi lucidi del pescatore.
«Il mio bambino non è nato per avere una vita lunga».
Le prime barche avevano preso il largo, le loro lanterne scivolavano silenziose, portandosi via la luce dal molo.
Il pescatore gli mise una mano sulla spalla e disse: «Non tornare più qui. Prendi freddo», quindi salì sulla barca e sciolse la corda.
Sam pensò che gli sarebbe piaciuto uscire a pesca con lui.
Non perse d’occhio la lanterna finché non divenne un punto, più piccolo persino delle stelle.
Mercoledì 7 novembre
I due ragazzi sedevano l’uno accanto all’altra, in silenzio. La rassegnazione del padre di Nicola aveva ammutolito Sam, incapace di ammettere che si potesse avere il destino segnato anche fuori di un campo di concentramento. Si era illuso che tutto il dolore del mondo si fosse annidato in quei luoghi di morte, invece eccolo di nuovo lì, beffardo, riapparire per prendersi gioco di un bambino.
Gerti, per sua fortuna, non aveva mai conosciuto la malattia e quella di Nicola non riusciva neppure a figurarsela, ma le bastava guardare Sam negli occhi per capire quanto la situazione fosse grave.
«Portiamolo via da lì, così il dottor Mele smetterà di fargli del male».
«E dove lo portiamo?», replicò Sam. «No, non possiamo fare niente noi due soli, dobbiamo rivolgerci agli inglesi».
«E se non ci credessero? Chiameranno i miei genitori, diranno che ci siamo inventati tutto. Ci servono delle prove».
Sam si alzò in piedi: «Hai ragione, andiamo in ospedale». Le porse la mano. «Ho bisogno del tuo aiuto, vieni con me?».
Gerti arrossì. Poi afferrò la mano tesa di Sam e disse in un soffio: «Cosa devo fare?».
Lungo le corsie regnava il solito trambusto, la mattina era il momento più animato della giornata. In mezzo al via vai di infermieri, pazienti e familiari in visita, nessuno faceva caso ai due ragazzi che confabulavano in tedesco.
Il ragazzo procedeva spedito. Gerti percepì che, per Sam, l’ospedale era diventato un ambiente familiare. Lo immaginò con qualche anno in più e uno stetoscopio attorno al collo.
«Questo è lo studio di Mele», sussurrò Sam indicando la porta chiusa. «A quest’ora sta visitando i pazienti. Potrebbe essere da Nicola». Ripensò alle palpebre gonfie dell’amico e al suo respiro affannoso. «Sali al primo piano, la sua stanza è la numero 37. Affacciati ma sta’ ben attenta a non farti vedere. Quando il dottore sta per uscire, tu corri a chiamarmi».
Sam, preoccupato, osservò Gerti allontanarsi. Poi entrò di soppiatto nello studio, aveva poco tempo. Sulla scrivania vi erano dei testi di medicina e le cartelle dei pazienti appena ricoverati. Alcuni fogli erano coperti di note, scritte a mano dal dottore in bella grafia. Scartabellò tra le carte, aveva ormai acquisito quel tanto di linguaggio tecnico per capire gli appunti di Mele. Non vi era nulla che si riferisse ai sintomi di Nicola. Provò ad aprire il cassetto della scrivania ma era chiuso a chiave. Tirò con tutte le sue forze e la serratura cedette. Dentro c’era un fascicolo, sembrava la bozza di un articolo scientifico.
Afferrò la cartellina un attimo prima di sentire un rumore concitato di passi. Il cuore gli martellò nel petto finché non riconobbe Gerti, con il viso rigato di lacrime, sconvolta a tal punto da non riuscire a parlare. Gli fece un gesto inequivocabile, dovevano andarsene il più in fretta possibile.
Uscirono rapidi dall’ospedale.
Nel piazzale, Dorothy sbarrò loro la strada. Gerti, d’istinto, si nascose dietro Sam; il ragazzo strinse più forte contro il petto i quaderni appena rubati. Dorothy gli accarezzò una guancia.
«Non è prudente restare vicini all’ospedale», disse. «Muoviamoci: casa mia è qua dietro».
Dorothy camminava tenendo la mano posata sulla schiena del ragazzo: anche se non era sicuro di potersi fidare, Sam era lieto che ci fosse qualcuno a guidarlo. Senza, si sarebbe lasciato prendere dal panico. L’infermiera li fece accomodare in cucina, prese un paio di bicchieri e vi versò del succo di arancia.
«Allora», la voce di Dorothy era calma, «è questo che avete preso dallo studio del dottor Mele?».
Il ragazzo irrigidì la mano sopra i quaderni, appoggiati sul tavolo.
«Tu difendi il dottore», le disse. Dorothy si passò una mano sul volto, per un momento sembrò stanchissima. «No, io difendo i pazienti e attorno a quel ragazzino c’è troppo mistero».
Si alzò e versò del succo anche per sé.
«Non è sempre stato così. I primi tempi Nicola era un malato come un altro. Poi, d’un tratto, è diventato esclusiva del dottore. Sono ormai diversi mesi che si occupa anche di faccende che, di norma, spettano alle infermiere».
Fece una pausa, durante la quale si lasciò distrarre dal sole al di là della finestra.
«Mi fido del dottore, ma so anche che tu vuoi davvero bene a Nicola. E non avresti fatto tutto questo senza una buona ragione».
La mano di Sam alleggerì la presa ma non si spostò di un centimetro.
«Vogliamo portare questo agli inglesi».
«Sono i suoi appunti?».
«Sì».
«Lascia che li legga, solo così posso farmi un’idea di quello che sta succedendo. E se davvero provano che Mele sta testando senza permesso un medicinale sul bambino, ti prometto che sarò io stessa ad accompagnarti all’UNRRA».
Dorothy attese che la mano di Sam si sollevasse dalle carte. Quindi inforcò gli occhiali e si mise a leggere, talvolta a voce alta, più spesso fra sé e sé, tamburellando le dita sulle labbra. Sam cercava lo sguardo di Gerti, senza successo. Lei disse di dover rientrare, era stata fuori anche troppo.
Dorothy interruppe la lettura: «Va bene. Stai attenta, in giro da sola. Vuoi che Sam ti accompagni?».
Lei scosse la testa. Ringraziò e raggiunse la porta.
«Aspetta!», Sam la seguì. Gerti si voltò solo quando lui le scostò una ciocca di capelli dall’orecchio.
«Grazie per oggi. Ma dimmi cos’è successo nella stanza di Nicola». Vide ricomparire le lacrime.
Lei rispose a mezza voce: «Nicola si lamentava così tanto, così forte! Io non riuscivo a vedere bene. Quando il dottore si è spostato, mi sono accorta che era tutto gonfio e coperto di macchie rosse. Faceva fatica a respirare. Mele era agitato, si è messo a rovistare nella sua borsa finché non mi ha visto… forse mi è uscito un singhiozzo, non so. E proprio in quel momento, Nicola ha smesso di piangere».
Sam le strinse il braccio: «E poi?».
«Non lo so, sono corsa via!».
Sam l’abbracciò e le disse che sarebbe andato tutto bene.
Dopo che Gerti fu uscita, Dorothy si rivolse a Sam: «Avevi ragione. Non riesco a capire come abbia potuto. Ha continuato a usarlo come cavia, anche quando si è accorto che la reazione del suo organismo era troppo violenta».
Dorothy prese il viso di Sam tra le mani.
«Sbrighiamoci, Mele avrà già scoperto che i suoi appunti sono spariti. Dobbiamo denunciare tutto subito», gli sorrise, «Forse riusciremo a risparmiare a Nicola ulteriori sofferenze».
Sam la seguì fuori casa senza dire una parola.
Giovedì 8 novembre
Sam camminava avanti e indietro per la stanza.
«E poi?», Dariusz era impaziente di conoscere il seguito della storia.
«Mi hanno detto di rimanere a casa finché le cose non si fossero sistemate».
«E basta?».
Sam annuì pensieroso. «Non so se fidarmi di loro».
Dariusz gli offrì una sigaretta ma venne ignorato.
«Tranquillo, nessuno è più risoluto degli ufficiali dell’UNRRA, soprattutto quando c’è di mezzo la loro reputazione. Volevano portare Mele a Londra e spianargli la strada per una brillante carriera. E adesso il bastardo resterà ad abbrustolire in questo buco d’Italia».
Sam si accalorò: «Che m’importa della sua carriera! Merita di andare in prigione!».
Dariusz era sul letto, con la schiena appoggiata al muro e una sigaretta fra le labbra. «Difficile, amico mio, difficile. È pur sempre un medico molto stimato, anche se con Nicola ha voluto strafare».
«C’è di mezzo di un bambino, che ha già sofferto abbastanza».
Dariusz allungò il braccio per passargli la sigaretta.
Sam tirò una boccata nervosa. Ricordò la nuvola di fumo che spuntava dal bordo del gradino, poco tempo prima, e disse: «Fino a che punto si potrebbe spingere Mele?».
«Che vuoi dire?».
Sam rispose con voce appena percettibile: «Se invece di un bambino ne avesse molti, tra le mani, su cui condurre i suoi esperimenti. Magari ebrei».
«Non dirlo neanche».
«È uno di loro, lo capisci? Un maiale come…».
«Ho detto smettila!».
«… Herr Heim».
Dariusz scattò in piedi. Il famigerato Dottor Morte di Mauthausen popolava molti dei suoi incubi.
«Non siamo più nel lager». Guardò Sam come a cercare conferma.
Ma l’amico non lo stava più ascoltando. Si diresse verso la porta.
Dariusz fece un mezzo sorriso. «Sbaglio o ti era stato chiesto di non uscire?».
Sam schiacciò il mozzicone sotto la scarpa e disse: «Vado solo a dare un’occhiata».
Sam oltrepassò l’ingresso dell’ospedale stando ben attento a non incrociare nessuno.
Sperava di passare inosservato, come da bambino, quando si concentrava per diventare invisibile e sua madre fingeva di non vederlo più.
Puntò dritto verso lo studio di Mele. La porta era socchiusa, Sam sbirciò all’interno.
Il dottore era seduto alla scrivania, la testa abbandonata tra le mani. Un ufficiale passava in rassegna i fascicoli dei pazienti. Un altro, che appariva un superiore, stava dettando qualcosa a Dorothy. Di tanto in tanto, faceva domande al medico.
«Lei non aveva l’autorizzazione per testare un farmaco di sua invenzione sul bambino. Perché lo ha fatto?».
Mele tacque a lungo.
«Dottore, risponda. Perché non ha interrotto la cura neppure quando si è reso conto che il fisico di Nicola non la tollerava?».
Lui alzò gli occhi, esitò ancora per un attimo, poi parlò con un filo di voce: «Credevo… sono sicuro che il farmaco funzioni».
«Ma il bambino è allergico, sono comparsi tutti i sintomi!».
Mele scosse la testa: «Lo so. L’unico miserabile motivo per cui ho fallito è una banale allergia».
«Lei ha usato un bambino di otto anni come cavia!».
«Per quel che vale, dopo lo shock anafilattico di ieri mi sarei fermato comunque».
Guardò d’istinto verso la porta anche se sapeva di non poter scappare. Solo allora si accorse della presenza del ragazzo. Il suo sguardo si caricò di un odio che trascinò Sam in pasto ai ricordi più neri.
Nessun filo spinato, nessuna inferriata era in grado di segregare l’orrore. In qualunque posto, l’uomo poteva perdere la sua umanità.
Il Dottor Morte era dappertutto.
Domenica 17 novembre
«Sbrigati, altrimenti fai tardi», Dariusz lo spinse fuori dalla camera. Sam sorrise, rendendosi conto solo allora di quanto il compagno gli sarebbe mancato.
Corse in ospedale con il Corriere dei Piccoli sotto il braccio. Nel corridoio incrociò Dorothy che gli accarezzò i capelli. «Passa a salutarmi, dopo».
Sam annuì e raggiunse la camera.
Nicola era steso su un fianco. Si voltò quando lo sentì entrare.
«Ti ho portato questo».
Sam mise il giornale sul comodino.
«Finalmente! Avevi perso l’indirizzo dell’ospedale?».
Sam avvicinò la sedia al letto.
«Scusami se non sono venuto prima. Non avevo il coraggio di dirtelo».
«Cosa?».
«Vado in America. La mia nave parte tra due settimane».
Nicola guardò fuori dalla finestra, in direzione del mare.
«Non ho mai visto una nave, mio papà però ha una barca. Quando sarò guarito farò il pescatore come lui». La pelle del viso e delle braccia era tornata di un colore normale.
«Cosa è successo quando gli americani sono entrati nel campo di concentramento?».
Sam ripensò alla storia che gli aveva raccontato e proseguì: «Era notte e i prigionieri dormivano, sopraffatti dalla fatica. Alcuni si svegliarono e piansero di fronte alla scena, riparati dietro alle finestre delle baracche. Pensavano che presto sarebbero tornati a casa. Altri invece non si risvegliarono più: dormivano ormai più in alto, in mezzo alle nuvole, dove il rumore della guerra non poteva raggiungerli».
Nicola ascoltava con gli occhi chiusi, sorridente.
Lunedì 18 novembre
«Eccoti!», Gerti si lasciò cadere sulla sabbia accanto a lui. «Non ti vedo da un pezzo, eri scomparso!».
Sam ripensò agli ultimi giorni trascorsi chiuso in camera. Dariusz gli portava il cibo dalla mensa e gli raccontava la giornata, nonostante l’amico restasse raggomitolato tra le lenzuola, senza fare una mossa.
«Com’è andata a finire?».
«Abbastanza bene», Sam sbirciò il suo volto, poi tornò a concentrarsi sul mare.
«Hanno arrestato il dottore?».
Sam scosse la testa amareggiato. «No. Però non andrà con loro a Londra. Almeno, non potrà più fare carriera».
Gerti era attonita: «Ma come, tutto qui?».
Sam non aggiunse altro.
«E Nicola?», gli domandò titubante.
«Sta meglio, gli attacchi di allergia sono passati».
«Oh, davvero?», Gerti lo abbracciò. «Una notizia così bella si merita un bagno, non credi?».
Dopo tanti mesi trascorsi in Puglia, Sam aveva imparato a nuotare. Si tuffarono, nonostante il mare non fosse più caldo come in estate. Nuotarono per diversi minuti, schizzandosi l’acqua addosso. Gerti, ogni tanto, scoppiava in una risata.
Quando uscirono dall’acqua, Sam le passò l’asciugamano.
«Gerti, gli inglesi mi fanno partire».
«Perché?».
«Dicono che, vista la situazione, tanto vale che io sia uno dei primi a imbarcarmi. La nave sarà pronta tra un paio di settimane».
Lei sentiva in bocca l’amaro del sale.
«Dove andrai?».
«In America».
«Bene!».
Sam non si era aspettato quella reazione.
«Davvero?».
«Certo, te l’ho detto che anche la mia famiglia vuole andare là, dai nostri parenti. Ci ritroveremo, è una promessa».
«Gerti, l’America è enorme! Non so nemmeno dove andrò a vivere. Non conosco nessuno».
«Non importa. Ci troveremo e ci sposeremo».
Lei allungò una mano. Sam gliela strinse. Poi, invece di lasciarla andare, la tenne sul suo petto.
Il mare era azzurro tutt’intorno.
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