Esercizi di Francesca Veltre

Scrivere incipit e fine del racconto (F.Kafka “La partenza”)
La vera storia di Ludwig

Conobbi Ludwig due inverni fa.
Stavo cenando in città in una delle tante osterie, solo, come ogni sera.
Il mio piccolo tavolo quadrato era sistemato tra il camino e la porta che dava alle cucine, nonostante il fastidio che mi arrecava il passaggio degli inservienti alle mie spalle, non potevo rinunciare al tepore del fuoco in quella notte di silenziosa neve.
Ordinai una zuppa di funghi e asparagi, un boccale di rosso della casa e un bollito di carne e verdure. Quando il servo portò al tavolo la zuppa, gli chiesi in aggiunta un filo d’olio a crudo, egli non mi comprese tornando dalla cucina con un nuovo cestino di pane.
«Le ho chiesto dell’olio» dissi io, il servo mi guardò impassibile, con un’aria tra il trasognante e l’inebetito. Se ne stava immobile, con il cestino in grembo, la testa piena di capelli, le mani forti, gracile nella corporatura, avvolto nel grembiule pulito e abbondante.
D’un tratto lo raggiunse una pedata, egli cadde a terra senza alcuna resistenza, come un ramo secco potato dal vento, il pane cadde a terra con lui rotolando in tanti piccoli bocconi ancora caldi, una semina di grano già macinato e cotto.
Il servo restò a terra per qualche istante mentre il padrone della locanda infieriva su di lui maledicendolo per essere nato; si alzò lentamente, sembrava non dare alcun peso al veleno che usciva dalla bocca dell’oste, guardò il pavimento intorno a lui quasi a cercare la causa di un’accidentale caduta; la pancia dell’oste sobbalzava frapponendosi tra i due, il padrone agitava le sue corte braccia, incapace dalla sua altezza di raggiungerlo al bavero. Come un toro robusto si scagliò sul servo, gli strappò il grembiule di dosso e con un’ultima pedata lo scaraventò fuori dal locale. Assistetti alla scena con sgomento; non osai alzarmi ne commentare l’accaduto, mi sentivo responsabile e allo stesso tempo intimorito da quel rozzo locandiere.
Terminai con lentezza la mia zuppa, non spesi una parola, non bevvi un sorso di quel vino della casa, pagai il conto senza alcuna mancia e varcando la soglia giurai a me stesso che non avrei mai più messo piede in quella locanda.
Uscito all’aperto, l’aria pungente risvegliò in me un senso di libertà, la costrizione che avevo vissuto pochi istanti prima era come svaporata in un’aria leggera.
Mi diressi con passo deciso verso casa, la neve aveva di nuovo imbiancato i vicoli, riuscivo solo a udire i miei passi scricchiolare sotto le suole, mi strinsi nel cappotto poco prima di superare le ultime case della città, pronto ad affrontare l’aria nuova e gelida della collina.
Appena svoltai l’angolo, udii come un picchiettare di legni nel silenzio e riconobbi nella figura di un uomo, la stessa del servo cacciato a pedate dall’osteria.
Se ne stava in silenzio nel bel mezzo di una radura, la luce gialla della luna si rifletteva su ogni cosa intorno a lui, gli illuminava il viso, lo sguardo era lo stesso trasognante ed ebete di un’ora prima, come se nulla fosse avvenuto a perturbarlo. Tra le sue mani un ramoscello lungo di salice ondeggiava come una frusta andando a toccare in piccoli colpi i tronchi spessi di betulla che lo circondavano.
Appena udì i miei passi si fermò, mi guardò e mi disse «Non crede signore che la neve sia viva? Assorbe ogni cosa e ha un’ottima memoria». «Credo che la neve sia bianca e che qui fuori si geli… venga con me!» Risposi.
Il servo mi seguì passo dopo passo facendo attenzione a ripercorrere le mie orme sul sentiero.
Entrammo in casa, accesi tutte e tre le lampade della stanza, gettai qualche legno nella stufa ancora tiepida, versai due bicchieri di vino e mi sedetti al tavolo. Il servo se ne stava sull’uscio, ancora in piedi, fissandomi, fu allora che mi accorsi guardandolo che sotto quelle folte sopracciglia, due occhi piccoli e vispi si muovevano in scatti orizzontali.
C’era qualcosa in quell’uomo che mi ispirava fiducia, c’era qualcosa in me che non avrebbe più potuto fare a meno di lui.
Da quella notte Ludwig si stabilì nella mia casa; prendendo servizio l’indomani si occupò subito della stalla. Era particolarmente dotato per i lavori manuali, preferiva evidentemente i più ripetitivi come nutrire i cavalli, spaccare e accatastare la legna, pulire l’olio delle lampade…, questa ripetitività gli consentiva di eseguire gesti meccanici lasciando alla sua mente il tempo di trasognare.
Parlavamo pochissimo. A me bastava, di tanto in tanto, incrociare la sua serena presenza; l’idea di non essere solo in casa mi faceva sentire meno vigliacco e dava una giustificazione al vuoto che negli anni mi ero creato intorno.
Di discorsi, dopo qualche settimana, rinunciai ad intavolarne, il servo spesso non mi comprendeva o non mi ascoltava, mi innervosiva la sua capacità di trascendere dal reale chiudendo ogni discussione in uno sguardo d’assenza.
Una mattina mi venne voglia di fare una passeggiata verso il lago di Lucena e chiesi al servo di farmi compagnia, di sellare i cavalli e di preparare dell’acqua per il viaggio.
Il servo non mi comprese. Andai io stesso nella stalla, sellai il cavallo e montai in groppa. Udii sonare una tromba in lontananza e domandai al servo cosa significasse. Egli non lo sapeva e non aveva udito niente. Presso il portone mi trattenne e chiese. «Dove vai, signore?», «Al lago di Lucena» risposi. «Starai via a lungo, signore?», «Tornerò per cena Ludwig, fammi trovare la zuppa calda».
Diedi un calcio al cavallo e mi inoltrai per il sentiero. Dopo pochi istanti udii nuovamente quel suono di tromba, più distante di prima e più profondo. Arrivato in cima alla collina mi sorprese un vento forte e quel suono diventò incalzante, ad intervalli regolari, un lungo suono di tromba ripetuto e grave. Mi guardai intorno nel tentativo di capire da dove giungesse, ma nel raggio di un chilometro non riuscivo a scorgere altro che la mia casa.
D’improvviso trasalii al pensiero che forse proprio la mia casa potesse essere la sorgente di quello strano fenomeno. Mi tenni forte alle briglie e galoppai tenendo il cuore in gola. Giunsi a casa in un lampo, il portone era ancora spalancato, smontai da cavallo e passata la soglia il suono mi raggiunse nel suo fragore. Attraversai il corridoio e vidi decine di fogli trascinati dal vento scivolare e cadere dalla scala che portava alla stanza di Ludwig, al primo piano.
Lentamente e con passo fermo cominciai a salire i gradini tenendomi forte al corrimano. La porta della stanza era spalancata, potevo scorgere Ludwig di spalle, in ginocchio ai piedi del letto. La sua nuca arruffata e piena di capelli si muoveva in scatti orizzontali così come mi ero abituato a veder muovere i suoi piccoli occhi. Teneva stretta nel pugno una penna e incideva con segni pesanti i fogli sistemati sul letto per poi scaraventarli sul pavimento in decine e decine. Dalla finestra aperta scorsi una tromba distesa sul davanzale, l’imboccatura sospesa nel vuoto e tutto lo strumento in bilico e in balia del vento.
Lo spettacolo era straordinario, la stanza sembrava un luogo sospeso nel tempo e nello spazio. Dopo qualche minuto, credo, o qualche ora, il suono cessò e Ludwig si scaraventò esausto sul letto, con la faccia immersa nei fogli cominciò a piangere.
Io restai fermo alle sue spalle, provavo pena e ammirazione insieme. Egli avvertì la mia presenza, si voltò e disse «Non crede signore che il vento sia vivo? Muove ogni cosa e compone infiniti concerti».
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Riassumere il libro preferito in 1 riga, 3 righe e 6 righe.
TRILOGIA DELLA CITTA’ DI K. di Agota Kristof

La guerra, l’est Europa, il vortice dell’inquieta natura umana. Una verità letteraria.

Agota Kristof racconta della perdita dell’identità nel doloroso vortice della seconda guerra mondiale. Un’opera crudele e tagliente in cui la verità umana emerge dalla menzogna di personaggi inquieti e camaleontici. Uno straordinario romanzo nero.

Europa dell’est, seconda guerra mondiale.
Agota Kristof graffia la coscienza del lettore con una scrittura asciutta e tagliente, incide personaggi inquieti e camaleontici in una cornice surreale in cui le vittime sono carnefici. Un’opera circolare in cui il tempo si dilata, si sdoppia, descrivendo l’ attesa attraverso un’azione dirompente. Un quaderno in cui sta scritta la natura umana, una prova di verità letteraria, una grande menzogna, un’invenzione crudele e grottesca, un interrogativo sull’identità.
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Io in 10 righe

Bovina adulta di origine napoletana, allevata al nord dai 48 mesi. Mi nutro di prodotti di origine controllata preferibilmente bio. No OGM, no transgenico, no iperproteico. Splendida dentatura avorio. Poco moto molta acqua. Preferenza per stalla climatizzata e confortevole, ma infondo, mi accontento di una balla di fieno. Adoro i fiori e il sole di primavera. Accogliente, rassicurante e paziente vivo nel conflitto di un desiderio di mare. Debole per il nato sotto il segno del toro. Lieve intolleranza ai latticini.