Esercizi di Rossella Di Berardo

Scrivere incipit e fine del racconto (F.Kafka “La partenza”)
Attesa

Giunsi alla locanda convenuta a notte inoltrata. Dovetti bussare ripetutamente alla porta perché venissero ad aprire. Con tono spiccio dissi «Preparate delle stanze, tra non molto sarà qui la contessa De Mornay!». L’oste, un tipo d’uomo corpulento e accigliato, visibilmente irritato per essere stato svegliato a un’ora così tarda, mi guardò come si guarda un pazzo che dica sciocchezze e bofonchiò che intanto avrebbe dato una camera a me e poi, qualora la contessa si fosse presentata, avrebbe provveduto a tempo debito. Io stavo per ribattere che la contessa aveva un seguito di servi, cocchieri e camerieri ai quali pure bisognava trovare una sistemazione decente – era proprio per quello del resto, per annunciare il suo arrivo, che l’avevo preceduta – ma egli si era già avviato su per una scaletta a chiocciola e mi faceva cenno di seguirlo. Si affacciò in una stanzetta che dava sul ballatoio e senza tante cerimonie, svegliò un ragazzo e gli ordinò di scendere a ricoverare il mio cavallo nella stalla, quindi mi condusse lungo un corridoio buio dai muri scrostati e, fermatosi davanti a una porticina, esclamò: «Ecco, la vostra stanza» e mi lasciò.
Entrai, dentro vi erano solo un lettuccio di ferro, con accanto una sedia che fungeva da comodino e sulla parete opposta una grande cassapanca. Rimasi un momento come stupito, poi andai alla finestra e la spalancai: fuori c’era una notte viola, con un alone di luna, ma lontana, e un freddo brusco di aria bagnata. Pensai fosse ben strano che una dama così raffinata decidesse di passare la notte in una simile bettola, ma probabilmente non c’erano altre locande nel giro di molte miglia.
Quella notte ebbi sogni confusi, nei quali rivivevo l’incontro con la contessa sconosciuta e vedevo i suoi occhi neri farsi sempre più grandi e vicini, e poi sparire all’improvviso.
L’aspettai tutto il giorno seguente e il giorno dopo ancora, in uno stato di crescente impazienza che già diventava delusione. Ai pasti sfuggivo le chiacchiere degli altri avventori e prendevo posto in un tavolino appartato, accanto alla finestrella che dava sul cortile davanti, nella speranza riposta di sentire da un momento all’altro un rumore di carrozza. L’oste sembrava rivolgermi di quando in quando occhiate di compassionevole derisione. Mi immaginai ogni sorta di storie che potessero giustificare un tale ritardo. Il terzo giorno presi il cavallo e rifeci all’indietro buona parte della strada che avevo fatto per arrivare fin lì, ma non trovai alcuna traccia di un recente passaggio o di un imminente arrivo.
Solo quando fui di nuovo alla locanda, stanco e infreddolito nella stanza spoglia, mi rassegnai alla semplice realtà: ero stato ingannato. Con leggerezza, con frivola noncuranza, una donna troppo bella e un po’ annoiata, aveva sacrificato ad una sua risata una mia romantica ingenuità.
Dormii male, ma dormii. All’alba raccolsi le mie cose, saldai il conto e chiesi che si preparasse subito il mio cavallo. L’oste spedì il garzone nella stalla, ma quando uscii nel cortile vidi che quello armeggiava presso un pozzo e gli chiesi perché non avesse ancora preparato nulla. Il servo non mi comprese. Andai io stesso nella stalla, sellai il cavallo e montai in groppa. Udii sonare una tromba in lontananza e domandai al servo che cosa significasse. Egli non lo sapeva e non aveva udito niente. Presso il portone mi trattenne e chiese: “Dove vai, signore?”. Lo guardai, ponendomi il problema per la prima volta in quell’istante e pensai che non sapevo davvero cosa rispondergli, dal momento che la mia meta, se mai era esistita, l’avevo consumata tutta in quell’attesa. Dissi solo: «A inseguire un altro miraggio», e spronai il cavallo al galoppo.