Davanti alla porta mezza
sconquassata di uno dei tre vani di quella capanna fatta di canne e di creta e
imbiancata di calce, dove, con molta probabilità, un tempo vi avevano tenuto il
bestiame e che ora era diventata la dimora di sua madre e di due altre famiglie
colpite dalla stessa disgrazia, i gerani splendevano coi loro vivi colori sotto
il sole non tanto caldo ma chiaro e diretto di quel giorno di ottobre 1955.

Fece qualche passo più in là
per poter vedere dal di fuori e di giorno quella che, praticamente, era
diventata la sua casa. Si sentì stringere il cuore: era tutto lì quello che lo
Stato aveva deciso di dare a gente come loro…

Si avvicinò ai vasi di fiori
e sorrise commosso. Nemmeno un foglia secca, nemmeno un sassolino nel terriccio
di quei vasi: sua madre li aveva curati con amore e sollecitudine i suoi fiori,
così come aveva fatto tutta la vita.

Si ricordò che, quando
faceva la maestra a Tirana, appena tornava dalla scuola, si soffermava
nell’atrio a ispezionare i fiori, qua toglieva un ramoscello rinsecchito, là
raddrizzava un fiore un po’ inclinato e solo dopo aver compiuto quel servizio
entrava in casa.

E il marito, per
stuzzicarla, le canterellava una canzone popolare:

Qual fiore sei

E Fiore ti chiamano…

I fiori, per sua madre,
erano stati sempre un modo per esprimere la sua voglia di partecipare al
continuo rinnovarsi della vita e di circondarsi di colori e profumi.

Quel gesto prettamente
femminile un tempo le aveva dato diletto e gioia. Ora le dava conforto.

– Forse sono state una delle
poche cose che ho avuto in questi anni.

Aveva detto al figlio il
giorno prima, quando lui era tornato dal carcere.

– I fiori e le tue lettere.

Le sue lettere!

Una al mese avevano diritto
di spedire dal carcere, scritta chiaramente e di poche righe (per quanto tempo
era stato nel carcere di Tirana poteva scrivere una paginetta di quaderno, da
quello di Burrel, invece, le lettere – sempre una al mese – non dovevano
superare le sette righe!). E se il poliziotto di turno che le censurava –
generalmente semi-analfabeta – trovava difficoltà a leggerle, quelle povere
lettere non arrivavano mai al destinatario. E nessuno poteva lamentarsi. (“E
che facciamo noi, secondo te, delle tue let-tere? Le collezioniamo? Le mettiamo
al museo?”).

– Il tempo per me veniva
scandito dalle tue lettere.

E gliele aveva mostrate,
tutte conservate in una scatola di cartone. Dalla prima all’ultima, in ordine
di tempo.

– Grazie a loro non ho
smesso mai di parlare con te. E cercavo di leggere anche tra le righe quello
che pensavo avresti voluto dire e non potevi. Penso che ci sono riuscita e
questo mi ha dato grande serenità.

Mentre lei gli parlava, lui
osservava quella stalla che sua madre, pur vivendo una triste solitudine e una
profonda povertà, aveva trasformata in una dimora, giorno dopo giorno, vivendo
con ras-segnazione e con fiducia la sua situazione a dir poco impossibile.

I muri, pieni di gobbe e
incavature, erano bianchissimi di calce. Il soffitto mancava del tutto ma sua
madre aveva rimediato con dei larghi fogli di cartone, cucito uno con l’altro e
appesi alle travi del tetto. Con una cassa di legno, coperta da un ricamo
lavorato nelle ore di solitudine, aveva fatto un comodino e lo aveva messo
vicino al letto di assi di legno. C’era anche un altro letto in quella stanza,
con una vera rete metallica. Era stato messo lì gli ultimi giorni, mentre
aspettava l’arrivo del figlio. Quella rete gliela avevano regalata i fabbri di
una cooperativa statale dove lei, il primo anno di deportazione, aveva fatto la
contabile, prima che venisse licenziata di nuovo e definitivamente da tutti gli
impieghi possibili.

Un tavolinetto e due
sgabelli, lavorati a mano da un apprendista falegname, figlio di un fabbro
della cooperativa, completavano l’arredamento.

Sulle pareti alcune foto:
quella di suo marito e di suo figlio, un’altra istantanea scattata anni fa a
Tirana, in via 28 Nëntori, un altro ritratto del nonno materno e qualche altra
foto che ricordava un tempo rimasto fermo, sospeso tra i ricordi.

Ma una cosa non riusciva a
capire cosa poteva essere: c’erano quattro fili di spago che, partendo dai
quattro angoli del soffitto, si fermavano al suo centro e lì pendeva un
barattolo di latta, proprio vicino alla lampadina elettrica. I fili avevano una
lieve pendenza la quale aumentava man mano che si avvicinavano al centro.

La madre aveva seguito lo
sguardo del figlio e spiegò:

– Non lo puoi immaginare a
cosa serve? A raccogliere le gocce quando piove: il tetto gronda agli angoli!

Centinaia di volte si era
domandato con che cosa sua madre poteva far fronte alle necessità della vita
quotidiana. Ogni volta che gli arrivava il pac-co dei viveri, ogni volta che
sua madre intra-prendeva quel difficilissimo viaggio di cento-cinquanta chilometri
per strade non asfaltate, con dei camion di fortuna e sempre a pagamento, per
venire a incontrarlo in carcere, lui voleva sapere come riusciva a farcela.

Ma le domande erano rimaste
senza risposta. Negli incontri di ogni mese, d’estate o d’inverno, a Tirana
come a Burrel, lei si era presentata sempre sorridente e non aveva lasciato
trapelare nemmeno uno dei mille problemi che la assillavano. E se lui insisteva
a saperne un po’ di più, lei la buttava sullo scherzo:

– Tout va très bien, madame
la Marquise! – rispondeva, citando una vecchia canzone francese.

– Veramente mamma?

– Parola di marchesa!

Non si dilungavano più di
tanto su questo argomento: l’incontro, atteso per un mese intero e realizzato a
prezzo di tanti sacrifici e fatiche da parte di lei, durava in tutto due
minuti. E anche questo dipendeva dall’umore delle guardie. Se quel giorno
c’erano stati molti incontri, loro si scocciavano e battevano alle sbarre di
ferro facendo un rumore infernale e giù a fischiare con i fischietti e a
urlare:

– Basta! Via! L’incontro è
finito!

Ma ora lui voleva sapere
tutto.

– E come hai fatto a vivere,
mamma?

La domanda, logica e
naturale, abbracciava un arco di cinque anni di deportazioni e di privazioni.

La madre non rispose
immediatamente. Si accese una sigaretta (“Quanto fuma!” pensò lui, osservando
le dita ingiallite dalla nicotina) e poi domandò a sua volta:

– È proprio indispensabile?

– Mamma: lo voglio sapere. E
bada: questa volta mi devi rispondere tu, non la marchesa.

Allora la madre cominciò a
raccontare. Adagio, passando da un fato all’altro senza che tra loro ci fosse
un nesso logico, con il distacco e la serenità di chi, avendo pagato un caro
prezzo, si trova al di sopra del dolore; di chi si sente unico arbitro della
sua vita e ha saputo accettare con rassegnazione ciò che era dovuto alla
volontà di Dio; di chi ha preso le distanze con dignità dalla meschinità della
gente povera di spirito, nascondendo le lacrime dietro un triste sorriso e
sopportando tutto, pensando al giorno del ricongiungimento col figlio.

– Pensai che tuo padre non
sarebbe potuto sopravvivere al tuo arresto, figlio mio… E infatti… Non te lo
puoi immaginare quanto lo colpì quella disgrazia. Dire che lo distrusse è poco.
Quell’uomo gioviale, allegro, brioso, aman-te della compagnia che era stato
papà… beh! Si trasformò irriconoscibilmente…

“ Io ho vissuto per un anno
e mezzo dopo il tuo arresto con un uomo fatto a pezzi… Te lo ricordi l’anello
del tuo bisnonno paterno? Quello che papà diceva sempre che lo conservava per
te? Ebbene: lo mise fuori, lo posò sulla tua scrivania e mi raccomandò di non
toglierlo da lì. In quel primo momento fui impressionata ed ebbi paura: ma
stava bene? Poi mi spiegò: voleva che quell’anello restasse lì fino al giorno
del tuo ritorno. Poi te lo avrebbe infilato con le sue proprie mani… Chi sa
quante volte l’ho sorpreso mentre annusava i tuoi vestiti. Vi sprofondava il
viso e piangeva. Io facevo finta di non accorger-mene. Accarezzava i tuoi libri
e si smarriva. Non voleva che lo vedessi: portava anche la mia pena, papà…
Quando sapemmo che la tua prima lettera dal carcere l’avevi indirizzata ai tuoi
compagni e non a noi, non se la prese.

“ “Per noi”, disse, “sarà la
seconda. Ci saranno le altre, cara, devi solo farti coraggio…” In verità
cercava di farsi coraggio lui stesso.

“ Non poteva saperlo, povero
papà, che non avrebbe letto più di quattro tue lettere. Quella di febbraio non
arrivò a leggerla… Lo presero il venti del mese. Sei giorni più tardi lo
fucilarono… Poi… Poi mi portarono qui. Ma Iddio è grande, Miki: io l’ho trovato
nel cuore dei nostri amici. Perché proprio loro, i fratelli Prifti, Llambi e
Misto, e la famiglia Dilo, specialmente zia Melpo, mi hanno inviato dei soldi.
Non erano obbligati a farlo, ma lo hanno fatto. Lo hanno fatto senza sperare in
un rimborso. Lo hanno fatto e basta. E poi c’è stato tuo zio paterno, i tuoi
cugini, la tua zia paterna e i suoi figli. E anche i tuoi compagni: non mi sono
sentita mai abbandonata. Poi c’eri tu con me. E c’era papà. C’è stato sempre.
Non è mancato mai. Anche ora lui vive in te, figlio mio…”

Il tempo aveva perso il suo
valore reale: mentre lei parlava, lui riviveva o cercava di rivivere quella
vita che non aveva conosciuto da vicino ma che ugualmente era stata sua.

– E poi ho cercato di
lavorare la maglia e il ricamo dietro compenso. Ho anche potuto vendere
qualcosa che ci era rimasto dalla confisca: qualche anello, qualche
sciocchezzuola. Insomma ce l’ho fatta. Ma per poter preparare i tuoi pacchi c’è
stato sempre tuo zio. Lui passava puntualmente ogni mese di qua e poggiava su
questo comodino una busta. Io lo sapevo: era il suo contributo per il pacco
mensile.

Suo zio non si era sposato.
Quando suo fratello fu fucilato, si sentì in dovere di mantenere la cognata e
il nipote. Faceva il camionista: viveva una vita dura, ma si privava di molte
cose nel più semplice dei modi, non accennando per niente ai suoi sacrifici.

– Ora tutto è finito… –
concluse la madre. – Ecco che siamo di nuovo insieme… Devi passare quanto prima
dalla famiglia Prifti e da quella dei Dilo per ringraziarli. Voglia Iddio che
un giorno possiamo trovarci in condizioni di restituire quello che hanno dato
senza pensare al domani. Non è da tutti. E poi devi sapere che mi ha fatto un
gran bene il gesto dei tuoi compagni. Pensa un po’: Berti e Bili mi hanno
portato parte del loro primo stipendio da apprendisti elettricisti e dopo non
si sono dimenticati mai di aggiungere da parte loro qualcosa a quello che ti
portavo in carcere.

– Mi hanno chiamato sempre
mamma dal giorno che rimasi senza te… Poi… poi devi sapere che la vita qua a
Lushnja non è tanto cara. Ho potuto risparmiare sulle spese… Solo le sigarette
non ho potuto controllare. Non ne ho avuto la forza necessaria…

– Mamma…

– … No: dico sul serio. Poi
fanno male alla salute!

Intanto continuava a tenere
fra le dita la sigaretta che ormai si era spenta.

Quella prima notte passò tra
ricordi e racconti. A letto andarono tardissimo. Per lungo tempo lui sentì sua
madre rivoltarsi agitata sotto la coperta. A un certo momento della notte lei
si alzò con grande premura e accese una sigaretta. Lui, che era sveglio, la
colse in fallo:

– Mamma, fa anche male alla
salute!

Risero entrambi. Era la
prima volta che ridevano dacché si erano visti.

Risero a lungo, con tutto il
cuore, quasi soffocandosi a vicenda: la vita si faceva avanti in mezzo a tanto
dolore.

La mattina presto la madre
scese in paese per fare la spesa.

Il figlio, dopo aver
ispezionato ancora una volta, alla luce del sole, quella cameretta, uscì.

Là fuori i gerani, ignari
della felicità sofferta che aveva sfiorato quella capanna in quella notte di
ottobre, splendevano come sempre belli e ben curati sotto i raggi del sole che
portava nuova vita, freschi e rossi. I gerani di sua madre.

Il debole rombo dei motori
lo aiutava a cullarsi in quel mondo di ricordi.

Frammentari, quei ricordi
non si susseguivano in ordine di tempo ma riempivano ogni momento di quel volo.
Quasi a dire che l’aereo stava portando via dal suo Paese anche i ricordi di
tutta una vita.

Ma che vita sarebbe stata la
sua se i ricordi non lo avessero aiutato ad andare avanti?

Corrugò la fronte: voleva
ricordare anche delle cose belle, episodi pieni di gioia e di vita. Chi è che
non li ha avuti mai? Ma non dipendeva dai suoi desideri.

Come se ubbidissero a un
testardo capriccio del destino, come se avessero paura che con quel volo lui
volesse cancellare tutto quello che lo aveva fatto soffrire, quei ricordi si
accavallavano con prepotenza, irrompevano con brutalità, lo soffocavano
impietosamente. Come se volessero dare ragione a quella sua decisione, maturata
un po’ per volta durante i lunghissimi anni di privazioni, di lasciare il suo
Paese.

Non poteva selezionare i
ricordi, non poteva innalzare nel suo cuore una barricata per ostruire loro la
via. La strada dei ricordi passa per il cuore e il cuore, si sa, ama essere
libero.

 


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